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  • Romina Mandolini

Il successo attraverso i gruppi

Aggiornamento: 30 dic 2021

Chiunque voglia guidare gruppi deve comprendere cosa davvero questi siano e cosa significhi farne parte. C’è la costituzione di un “noi”, dietro quella carica propulsiva che li destina al successo. Ma questo percepirsi parte di un’unità, non è una condizione né ovvia né data per certa.


Il potere dei gruppi. Un insieme di persone che con forza e tenacia e spirito di gruppo sta costruendo un grande edificio
I gruppi e la loro forza

In ambito professionale (e non solo) sopravvive ancora forte la convinzione che il successo delle organizzazioni non risieda tanto nei gruppi, quanto nelle capacità dei singoli individui che vi lavorano. Difatti queste sono disposte a spendere migliaia, se non milioni, di euro pur di ingaggiare manager o atleti rinomati, nella speranza che questi da soli possano cambiarne i destini.


Sia chiaro, non stiamo negando il valore dell’individualità, quanto quella tendenza a sopravvalutarne l’autonomia o meglio, la supposta capacità di poter fare tutto da soli. Si portano come paragoni le azioni di certi leader e come abbiano cambiato la sorte di una squadra, di un popolo o di un’azienda. Ci si dimentica però, ogni volta, del ruolo fondamentale che hanno svolto i gruppi di persone che ne sostenevano l’azione e solo grazie ai quali, quei raggiungimenti sono stati possibili.


Il tema è riflettere sul potenziale produttivo di un individuo quando opera singolarmente piuttosto che quando lo fa come membro di un gruppo. Nell’ambito della Psicologia Sociale, innumerevoli studi hanno dimostrato che il successo in molti fenomeni cruciali nella vita delle organizzazioni (leadership, la motivazione delle persone, l’empowerment, il commitment, il mettere da parte i propri interessi per patrocinare un obiettivo comune, il predisporsi spontaneamente all’ascolto e a comunicare con gli altri, la persuasione), si lega al grado di aderenza del singolo a un “noi” (all’identità sociale condivisa dal gruppo).


Questa cosa non deve sorprenderci. Non siamo individualità che crescono e si sviluppano isolate le une dalle altre. La nostra esistenza è, a tutti gli effetti, gruppale e lo è sotto diversi punti di vista.


Veniamo al mondo e maturiamo una concezione di cosa questo sia e di come funzioni, attraverso il punto di vista che ci offre la nostra famiglia. Modelli, routine comportamentali e i valori che guideranno pensieri, atteggiamenti, l’agire. Grazie al gruppo dei pari, gli amici, avviamo quel processo che ci porterà a rimodulare la dipendenza dai nostri genitori e che concorrerà alla formazione della nostra autocoscienza (la consapevolezza di quello che siamo). Attraverso il gioco e il divertimento, sviluppiamo in maniera sana ed equilibrata la nostra dimensione emotiva, affettiva e sociale. Tutti aspetti che segnano il passaggio dal bambino che guarda alla vita attraverso gli occhi dei genitori, a soggetto adulto pensante. Dopodiché c’è la scuola, un gruppo sociale che vive di caratteristiche e dinamiche diverse da quelle del gruppo dei pari. Qui si perfeziona, per ciascuno di noi, quel processo di foggiatura che era già stato avviato in famiglia, al culmine del quale apprendiamo cosa significhi far parte di una data cultura e di una società. Ci misuriamo con sistemi di conoscenze, valori, norme sociali, ruoli, obiettivi, norme che ci costringono a uscire dal nostro egocentrismo e a confrontarci con l’alterità. Dall’asilo all’università, sono le arene dove ci alleniamo all’ascolto, a comunicare, a collaborare, a sviluppare competenze relazionali. Poi ci sono i gruppi all’interno dei quali apprendiamo e pratichiamo sport i quali, oltre a formare la nostra fisicità, ci permettono di comprendere il valore del lavoro di squadra, della disciplina, della lealtà, del rispetto degli altri e l’attenzione verso le regole. Poi ci sono i gruppi tematici, dove condividiamo e coltiviamo “con” e “grazie a” gli altri le nostre passioni, i nostri interessi. Infine ci sono i gruppi attraverso i quali svolgiamo la nostra professione (gruppi di lavoro, funzioni organizzative, comunità di professionisti, Federazioni, Albi e Ordini di categorie professionali, etc.) grazie ai quali condividiamo conoscenze, esperienze, sviluppiamo metodologie, le applichiamo, ritorniamo a confrontarci, lavoriamo per raggiungere obiettivi comuni ma potremmo continuare ancora a lungo.


Ora, tutte queste organizzazioni sociali attraverso le quali si articola la nostra esistenza, siano esse famiglie oppure aziende, istituzioni, partiti o movimenti politici, scuole, università, sindacati, congreghe religiose, categorie professionali, club o leghe sportive, associazioni culturali o non profit, consorzi, circoli, formano quella che chiamiamo società e sono tutti esempi di gruppi a loro volta formati, da altrettanti sottogruppi interdipendenti gli uni agli altri.


Oltre che agire “in” e “attraverso” questi, da queste appartenenze deriviamo “materiale” con il quale fabbrichiamo le nostre identità. Tanto che quando ci autorappresentiamo o ci descriviamo agli altri, lo facciamo attraverso le caratteristiche dei gruppi con i quali ci identifichiamo nei diversi momenti della nostra giornata: io sono un cattolico, io sono italiano, io sono una manager, io sono un ciclista, io sono una ballerina, io sono un politico, io sono un medico, io sono una laureanda, etc. etc.. Inoltre, sempre dai gruppi, ricaviamo le informazioni che ci servono per orientare il nostro essere al mondo. In effetti, tutti i gruppi che nominavano poc’anzi hanno i loro valori, le proprie norme, prevedono diversi ruoli, status differenti, condividono pratiche, rituali, credenze, conoscenze, visioni, atteggiamenti e comportamenti che ci rendono riconoscibili e al tempo stesso, distinguibili dagli altri.


I gruppi, a loro volta, sono fatti di relazioni. Ogni organizzazione ha indubbiamente una sede fisica che ad esempio per una famiglia, coincide con la propria abitazione, per uno Stato con i propri confini geopolitici, per un’azienda con il luogo di lavoro, etc. etc.. Alcune hanno anche un logo fisico che le identifica, un brand, tuttavia se scaviamo nel profondo di ciò che davvero le caratterizza, non troveremo altro che una rete fittissima di interazioni e relazioni (di lavoro, affettive, diplomatiche tra Stati, etc.). Queste sono il collante di quella data comunità, la struttura portante, la sostanza senza la quale i gruppi non potrebbero esistere.


Parimenti le relazioni, sono fatte principalmente di comunicazione.


Dopodiché la loro vita si esplica sulla scia di dinamiche comuni a tutti i gruppi dalle quali prendono vita i leader, la collaborazione, l’influenza sociale, il conformismo, la polarizzazione, l’emulazione, l’apprendimento, i conflitti e l’azione sociale con le trasformazioni o il mantenimento dello status quo, di cui i gruppi sono capaci.


Ognuno di noi, quale individuo socialmente riconosciuto, è “parte” costitutiva di questi insiemi di individui i quali, consapevoli o meno, vivono costantemente interrelati e interdipendenti gli uni agli altri. La nostra stessa identità, i nostri comportamenti, atteggiamenti si costruiscono nel rapporto con gli altri attraverso meccanismi di influenza sociale, emulazione, apprendimento.


A questo proposito non è un caso se nell’ambito delle scienze sociali, da più di qualche anno, la Sociologia Relazionale ha riportato al centro del dibattito scientifico e dell’attenzione, il valore dei beni relazionali. Se nell’ambito della Psicologia Sociale due importantissime teorie relativamente recenti, la Teoria dell’identità sociale (Tajfel e Turner, 1979; 1986) e la Teoria dell’auto-categorizzazione (Turner 1985; Turner et al., 1987) hanno fornito prove ineluttabili sul ruolo che nei singoli, svolgono le identità sociali condivise che caratterizzano i gruppi. Se nelle scienze economiche si sta parlando di valore economico delle relazioni. Del resto le Neuroscienze, hanno dimostrato abbondantemente che l’intersoggettività non è solo un fatto culturale ma una caratteristica fisiologica intrinseca dell’umano. Studi recenti hanno provato che questo bisogno di socialità si manifesta perfino nel grembo materno in feti gemelli, durante il loro sviluppo quindi ancora prima della nostra nascita.


Tutte queste evidenze non potevano non scuotere il mondo delle professioni, patrocinando una modalità di approccio alla realtà delle organizzazioni che sposterebbe l’attenzione sulle interconnessioni tra i diversi elementi che le compongono, in virtù di un operare in maniera organica e funzionalmente unitaria. Si riaffaccia così l’idea di un pensiero sistemico quale modalità di guardare alla realtà delle organizzazioni, distogliendo l’attenzione dal singolo individuo/ fatto/ fase/ processo per concentrarsi sulle relazioni, connessioni, rapporti, sulle dinamiche che disciplinano l’insieme in vista degli obiettivi comuni. Così da saper valutare, raffigurarsi, il ruolo che quell’isolato individuo/ fatto/ fase/ processo svolge riguardo all’evoluzione dell’insieme cui è connesso e da quel punto di vista, rilevare cause, influenze, effetti, priorità.


Si tratta di un modo intelligente di guardare ai gruppi come sistemi complessi, un punto di partenza dal quale iniziare a ragionare sul modo migliore di guidarli, senza sacrificare la specificità dei singoli ma al contrario, valorizzandone al massimo l’apporto.


A questo riguardo, serve però sgombrare il campo da un fraintendimento che come società occidentale ci portiamo dietro da tempo e che ha a che fare con l’incipit stesso di questo articolo. Difatti, uno dei temi cruciali sul quale ci si confronta ogni volta che si tira in ballo il concetto di collegialità, si rintraccia nella tensione che c’è tra il termine collettivismo e individualismo. La prevalenza del gruppo sull’indipendenza e valore della persona, il bene della collettività a svantaggio del singolo, l’egualitarismo verso elitarismo, l’accusa di conformismo a fronte dell’autonomia di pensiero. Da cui il continuo schierarsi, a favore dell’uno o dell’altra concezione credendo nel singolo piuttosto che nei gruppi, guardati da sempre con un certo sospetto.


In realtà, noi crediamo che si tratti di un falso problema, un fraintendimento nato da una questione mal posta. La società occidentale moderna, è nata sulla scia delle rivendicazioni sollevate da una visione individualista che, nella sua sciocca auto-idolatria, si è spinta in maniera parossistica perfino a celebrarne i vizi. Il confronto, aperto in passato, sui limiti di questa visione utilitarista ed egoista è stato infruttuoso perché è stato un po’ come chiedere all’oste se il vino era buono. Tuttavia i tempi attuali sono maturi per il dibattito che si è già aperto in diversi ambienti, anche in virtù del baratro cui questo paradigma ci ha condotto come civiltà.


Noi crediamo fermamente, anche in virtù delle premesse di cui abbiamo discusso poco fa, che gruppo e individualità non siano in opposizione e in un contrasto insanabile. Che si possa perfettamente perseguire il bene dell’uno contribuendo a quello dell’altro. Che si possano i propri scopi contribuendo pari tempo a realizzare quelli dell’insieme o del sistema di cui siamo “parte” e l’esempio più alto di questa evidenza ci viene da noi stessi, da come funzioniamo.


Prendiamo il nostro corpo. Ogni organo, sistema, sottosistema è specializzato nello svolgere funzioni sue specifiche. Il sistema circolatorio con i suoi organi o tessuti, cuore, sangue e vasi, è deputato al trasporto di materiale tra cellule. Il sistema digerente attraverso stomaco, intestino, pancreas, fegato, ha il compito trasformare il cibo in particelle assorbibili e di eliminare le scorie. Il sistema immunitario, grazie al timo, alla milza e ai linfonodi, di difenderlo da agenti patogeni. Il sistema endocrino con le sue ghiandole, di coordinare le molte funzioni corporee e parimenti dicasi per tutti gli altri sistemi con i corrispettivi organi, quali quello nervoso, respiratorio, riproduttivo, muscolo-scheletrico, etc. etc., ciascuno deputato a svolgere determinate funzioni. Questa complessa e articolata differenziazione rappresenta la ricchezza sulla quale il nostro corpo basa la sua efficienza e che ha permesso alla nostra specie di adattarsi all’ambiente. Tuttavia i problemi che potrebbero nascere a fronte di tutta questa diversità e specializzazione, sono stati superati da quello che in biologia viene chiamato meccanismo di omeostasi, la quale costringe tutto ciò che ci costituisce a operare in continuo raccordo. In questo modo viene garantita la stabilità del nostro sistema premiando, l’equilibrio e il benessere della totalità a discapito del protagonismo delle singole unità. Ad esempio, la pressione arteriosa o la temperatura corporea sono fortemente influenzate dalle condizioni ambientali esterne (es. caldo, freddo, altitudine) eppure, grazie a quel meccanismo, il corpo riesce a mantenerle in un range di valori stabili. L’omeostasi avviene a fronte di un continuo scambio di informazioni tra tutti questi apparati e un meccanismo molto articolato e complesso di comunicazioni – feedback –, necessari ad autoregolamentare l’insieme sullo scopo finale che nel nostro esempio è l’equilibrio e il benessere del corpo stesso.


Ora se partendo da questa similitudine, paragonassimo un organo alla singola individualità, il sistema al gruppo cui questa appartiene e il corpo all’intera organizzazione, è facile trarne un esempio chiarificatore di quello che stiamo cercando di rappresentare.


Ogni sistema-gruppo per raggiungere i propri obiettivi garantendo il corretto funzionamento e lo sviluppo del corpo-organizzazione cui appartiene, ha la necessità che i singoli organi-individui esprimano le proprie peculiarità senza mai omologarsi. La specializzazione dei compiti, ruoli, delle conoscenze, esperienze e la totale o parziale diversità che ne deriva e che caratterizza i diversi membri del gruppo, non è un limite ma una risorsa preziosa. È fondamentale che i reni svolgano delle funzioni loro specifiche e la vescica altre. Entrambi, sotto questo punto di vista, svolgono un ruolo fondamentale nell’economia di questo sistema e quindi avrebbero tutti i motivi di rivendicare, se servisse, la propria unicità. Tuttavia, quando ci spostiamo a livello di corpo-organizzazione, sappiamo che se vogliamo garantirne la sopravvivenza e lo sviluppo è necessario che tutte le funzioni che svolgono questi organi-singolarità-individui e i sistemi-gruppi cui appartengono, si coordinino per assicurare un equilibrio interno e costante nel tempo. Questa è la condizione senza la quale subentra la malattia, la morte; il che obbliga tutta questa specificità a operare in maniera organica e funzionalmente unitaria, poiché è la soluzione più intelligente e proficua per tutti.

Ecco per comprendere l’assurdità insita nella visione individualista dell’esistenza, basta sapere che questa ammette come sensato che il singolo individuo-organo sia, al contrario, legittimato a rivendicare, rispetto al bene comune, la superiorità dei propri interessi personali su quelli del sistema-gruppo o del corpo-organizzazione. Immaginate una ghiandola, il pancreas, che per un moto di pura vanità ignorasse la richiesta di regolare la concentrazione di glucosio nel sangue al superare della soglia minima o massima. Oppure se la più piccola e insignificante cellula, invece di riprodursi per far crescere o riparare il nostro organismo iniziasse per autoaffermazione a ignorare i messaggi chimici che le pervengono, riproducendosi senza freni. In entrambi questi casi, ignorando il bene comune che però sia chiaro, riguarda anche loro stessi, per il corpo-organizzazione le cose si metterebbero assai male, nel primo caso andando incontro a un coma diabetico nel secondo sviluppando un tumore.


Autodeterminarsi tenendo conto del benessere e degli scopi collettivi dell’insieme di cui siamo “parte”, non significa essere buoni ma intelligenti. Abbiamo avvalorato un paradigma culturale che ha favorito il conflitto e la contrapposizione, piuttosto che la collaborazione.


La modalità di concepire il lavoro di gruppo, come un complesso di competenze e specificità regolamentate sullo scopo che il gruppo intende raggiungere, ci permette di ottenere una serie di vantaggi. Il primo è quello di abbracciare una visione unitaria, dove l’“io” è obbligato a misurarsi continuamente con il “noi” e a far prevalere tutto quello che lo favorisce, poiché il fine che il gruppo intende realizzare è superiore alle rivendicazioni dei singoli membri, di là dai ruoli che questi rivestono. In questo modo, si intraprende una rigida ginnastica mentale che a lungo andare apre importanti feritoie sulla corazza egoica di ciascuno, alzando argini contro l’assolutismo delle sue rivendicazioni. L’altro vantaggio è quello di massimizzare le differenze in termini di capacità, professionalità, specializzazioni dei singoli membri del gruppo senza tuttavia rischiare di frantumarlo in tante unità atomizzate, che dissolvono buona parte del loro potenziale in conflitti, invidie e rivalità. Poiché in una concezione di questo tipo, le persone sono obbligate a considerarsi e a pensare al proprio lavoro, come a particole di un tutto a valle del quale si realizza la propria autodeterminazione come singoli. Ragionare in termini di unitarietà, responsabilità e fiducia, obbliga tutti i membri a una interdipendenza di fondo, che preferisce la collaborazione alla competizione e il sostegno al conflitto, perché più vantaggiosi per tutti.


Nel prossimo articolo vedremo come è possibile patrocinare queste condizioni all’interno dei gruppi di lavoro. Certamente, operando in questo modo il successo delle organizzazioni si lega spontaneamente, alla felicità di chi ne fa parte.



Letture consigliate:

De Grada E. (1999). Fondamenti di psicologia dei gruppi. Carocci

Mucchielli R. (1994). La dinamica di gruppo. Elledieci

Speltini G. (2002). Stare in gruppo. Il Mulino


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