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  • Romina Mandolini

Un percorso di potere: Mindfulness, Meditazione,Yoga, Nidra e Pranayama

Come affrontare lo stress attraverso una disciplina della mente e del corpo da cui ricavare nuove energie, stabilità emotiva, forza mentale e la leadership di noi stessi.



Donna che fa yoga


In un nostro precedente articolo, abbiamo fissato tre traguardi attraverso i quali deve passare chi guida gruppi e di questi vuole essere il leader. Due di questi (il primo è sviluppare abilità e capacità di comunicatore, il secondo lavorare in modo mirato e consapevole sulla propria sfera psicofisica per ricavarne forza, vitalità, lucidità, potere, concentrazione, attenzione, governo di se stessi arginando stress, ansia, insonnia, etc.), riguardano più in generale tutti coloro che ricoprono ruoli manageriali e l’ultimo di questi due, interessa tutti noi di là dai ruoli sociali che assumiamo.


All’interno delle organizzazioni, la frammentazione dell’esperienza professionale che caratterizza gli ambienti lavorativi, soggetti a continue riorganizzazioni, ristrutturazioni, riposizionamenti. Le scadenze e i carichi di lavoro asfissianti, in contesti professionali che sulla scia della diffusa necessità di contrarre i costi, risultano quasi sempre sottodimensionati (in termini di risorse umane e non) in contrasto con gli obiettivi sempre più sfidanti. La preponderanza, durante la giornata, del tempo dedicato al lavoro a detrimento di quello riservato al riposo e più in generale alla persona, anche a fronte dell’iperconnessione favorita dalla diffusione degli strumenti digitali e dall’evoluzione tecnologica. La concorrenza e la precarietà imposta dai mercati, dalle crisi economiche e dalle trasformazioni geopolitiche. I cambiamenti imposti dai contesti culturali, sociali, politici, tecnologici in cui le aziende operano (si pensi solo all’esperienza pandemica o all’avanzare delle tecnologie di telefonia mobile come il 5G). La competizione interna alle organizzazioni creata dagli “io” che nei gruppi o attraverso di questi, invece di collaborare, confliggono e agli individui che accecati dalla propria narcisistica idolatria – e bulimia di potere, approvazione, celebrazione – utilizzano indebitamente l’autorità conferitagli dai ruoli che ricoprono, a proprio uso e consumo o per accrescere il proprio status personale.


Quelli che abbiamo elencato sono solo alcuni, tra i tanti aspetti, con cui l’individuo che opera all’interno delle organizzazioni, direttamente o indirettamente, deve misurarsi ogni giorno. A questi si aggiungono le difficoltà legate alle attività specifiche e ai compiti che a ciascuno spetta di portare a termine, mediati attraverso le singole esperienze, aspettative, frustrazioni, fragilità, sogni, bisogni personali.


Coloro che vi ricoprono ruoli di governo, in particolar modo il middle management (siano leader o meno), hanno l’incombenza di far sì che tutto questo materiale sia indirizzato. Coloro che guidano e gestiscono persone, gruppi, essendo il tramite tra i lavoratori e l’azienda, diventano una specie di cuscinetto. Dischi tra le vertebre della lunga colonna vertebrale rappresentata dalla governance aziendale, i quali hanno il preciso scopo di supportarne, sostenerne il carico, il fardello, l’onere, le responsabilità. Ridistribuirne i carichi in modo equanime, uniforme verso i distretti periferici. Ammortizzarne le pressioni per permettere a questa stessa di essere flessibile, elastica e reattiva rispetto agli urti, ai movimenti, ai cambiamenti necessari.


Un ruolo, sotto tutti i punti di vista, difficoltoso, arduo, faticoso, pesante, problematico, complicato, complesso di cui non smetteremo mai di sottolineare la rilevanza. Ce ne siamo già occupati in un altro nostro articolo dove, non a caso, indicavamo come soluzione e via maestra la catarsi da semplice manager a leader. Di là da questa ultima considerazione sulla quale, per l’appunto, ci siamo già intrattenuti in quello scritto, questo è il fardello di cui si caricano, consapevolmente o inconsapevolmente, micromanager, top manager, coach, leader e chiunque altro gestisca gruppi.


Uno zaino pesante che grava sulla loro andatura, causa di stress e a lungo andare di esaurimento, logorìo, sovraffaticamento, tensione, ansia. Infidi e insidiosi compagni che debbono essere affrontati in maniera consona, opportuna e possibilmente risolutiva. Ma come si fa a fronteggiare tutto questo? Da un lato, dicemmo, individuando il segreto di una leadership di successo per poi incarnarla, dall’altro individuando il modo migliore per navigare in questo mare costantemente agitato da forti raffiche di vento e da grandi onde marine. Metodo, sia chiaro, che passa attraverso la conoscenza di specifiche tecniche di navigazione e per il tramite di una mirata preparazione e manutenzione dell’imbarcazione.


In assenza di questi ingredienti e in mancanza di contromisure valide, la maggioranza delle persone affronta questo annoso viaggio ripiegando sulla chimica. L’abuso di caffeina, per portare solo un esempio, agisce sul sistema nervoso centrale bloccando gli effetti dell’adenosina (il neurotrasmettitore associato alla percezione della stanchezza) e promuovendo il rilascio di due ormoni l’adrenalina e la noradrenalina, così da farci restare attivi indipendentemente dalla condizione di affaticamento. Lo sfinimento psicofisico che si determina, costringe tuttavia i meccanismi autoregolatori del corpo a una specie di corto circuito che si traduce, tra le altre cose, in una sovrapproduzione di cortisolo (l’ormone prodotto in condizioni di grande stress) con importanti effetti negativi su molti processi biologici tra i quali, la regolazione dei ritmi sonno-veglia. Motivo per il quale per ovviarvi o mitigare questi effetti, si ricorre nuovamente alla chimica. Assumendo sostanze che legandosi ai recettori delle cellule nervose, sono in grado di produrre risultati ansiolitici, ipnotici, sedativi, miorilassanti, etc. a seconda dell’effetto che si vuole riprodurre. Innescando così un meccanismo senza soluzione che da un lato, apre la strada a forme di dipendenza verso queste sostanze e dall’altro (non rimuovendone le cause), determina un aggravamento del nostro stato psicofisico fino a che si affacciano vere e proprie patologie associate, per l’appunto, allo stress cronico. Attacchi di panico, ansia, irascibilità, insonnia, depressione, sbalzi d’umore, disturbi cognitivi e tutta quella gamma innumerevole di patologie correlate che riguardano i nostri organi e i nostri sistemi. In questo quadro estremamente complesso, spesso si inserisce anche l’uso o abuso di alcol, utilizzato per esorcizzare la sofferenza cui questa condizione confina e di droghe. Assunte, ancora una volta, in funzione dello stato che si vuole provocare (deprimenti, come gli oppiacei; stimolanti, come cocaina, anfetamina, GHB, etc.; allucinogene: canapa indiana e derivati, LSD, ketamina, etc.)[1].


In riferimento allo stress cronico, all’interno delle organizzazioni sono oramai anni che si discute sulla necessità di dotare i propri manager di “strumenti alternativi” che li aiutino ad affrontarne gli effetti. C’è ovviamente anche un tornaconto personale dietro questo sentimento apparentemente filantropico, come assicurarsi la maggiore produttività delle persone e la mitigazione del rischio che i lavoratori così pressati, possano riversarne gli effetti negativi a danno delle organizzazioni stesse. La famosa resilienza di cui si fa un gran parlare, parimenti all’adattabilità richiesta dai continui cambiamenti a livello di mindset, passerebbero anche attraverso l’utilizzo di questi “mitigatori” e alla loro capacità di dotare l’individuo di una base dalla quale operare in maniera significativa sui propri stati, con effetti benefici importanti su più aspetti della propria persona.


Prima di passare in rassegna queste tecniche, dobbiamo chiarirci su un punto fondamentale. Il fatto che sia possibile, lavorando interiormente su se stessi, affrontare scenari complessi e volubili in maniera re-attiva, rafforzando la propria “armatura” piuttosto che subendone passivamente gli effetti lasciandosi sopraffare, non significa né legittimare l’impotenza di un individuo che davanti a certe dinamiche deve necessariamente annullarsi considerandole ineluttabili. Né convalidare l’illusione che trovata la valvola di sfogo, egli possa essere lasciato solo ad affrontarne il peso. In poche parole, non si può chiedere ai lavoratori di accettare sempre tutto, nascondendosi ogni volta dietro il paravento della resilienza. Né le organizzazioni possono pretendere che il prezzo della gestione di ciò che spetta a loro dirimere, ricada per intero sui singoli lavoratori. Queste pratiche sono state pensate per elevare la qualità di vita, il benessere, la salute delle persone e non possono essere utilizzate contro di esse. Non debbono essere consigliate per poi farne carne da macello, spremendone sempre di più e meglio le energie, né ci si può trincerare a lungo dietro di esse per mascherare la propria inerzia.


Eccoci dunque arrivati a parlare di queste “tecniche” tra le quali si annovera la, oramai, famosa mindfulness[2] che è il termine più diffuso, specie in ambito manageriale, con il quale queste vengono solitamente identificate. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che quello che di solito si intende con questa parola rappresenta un insieme molto più limitato e specifico di pratiche, derivate da conoscenze tratte dal Buddhismo e in particolare dalla meditazione Vipassana. Chi scrive è impegnata da anni a studiare (corroborando lo studio con la pratica) quel corpo di conoscenze e metodologie che alcuni studiosi chiamano Philosophia Perennis, all’interno della quale si collocano anche le pratiche meditative (e non solo del Buddhismo). Del resto, se davvero vogliamo capire come utilizzarle a nostro vantaggio, dobbiamo necessariamente allargare il campo delle nostre indagini, iniziando proprio dal “con che cosa” un leader, manager, coach e più in generale ogni persona, dovrà davvero confrontarsi quando volesse ricavarne forza e benefici non presunti o immaginifici ma tangibili.


In questo nostro articolo introduttivo al tema (e nel secondo articolo), abbiamo fatto delle premesse che in questo contesto è arrivato il momento di approfondire.


Abbandoniamo per ora la mindfulness e spostiamo la nostra attenzione all’interno di quattro correnti filosofiche, tra loro molto affini, caratteristiche del subcontinente indiano. Da un lato il Sāṃkhya, lo Yoga e il Vedānta (tre, delle sei scuole ortodosse – darśana – che fanno da base all’Induismo), dall’altra il già citato Buddhismo (ricordiamo che le conoscenze derivate da queste tre correnti, accompagnarono l’ascesi del Buddha durante il suo risveglio spirituale)[3]. Specifichiamo, nel frattempo, che lo Yoga qui citato non ha nulla a che vedere con quello che la maggioranza di noi Occidentali crede che esso sia, identificandolo prevalentemente con le famose posture acrobatiche o contorsioniste. É difatti un sistema molto più complesso e articolato di cui avremo modo di riferire in futuri articoli.


Queste quattro correnti filosofiche condividono diverse cose in comune e una di queste, riguarda la concezione inerente il rapporto che l’individuo ha con il dolore e più in generale, con la problematicità della vita umana. Ci riferiamo non solo alla sofferenza fisica, ma anche a quella emotiva e mentale dalle quali nascono le nostre afflizioni, i tormenti, le angosce, le pene, le ansietà e tribolazioni che affrontiamo a fronte delle nostre scelte e all’affermarsi della nostra volontà.


La nostra vita è, sotto molti punti di vista, una continua lotta. Seguendo la scia dei nostri appetiti, desideriamo delle cose e ne avversiamo delle altre (da cui i nostri conflitti e le nostre frustrazioni). A volte perdiamo le cose/persone/condizioni che amiamo e spesso anche quando ciò non avviene, viviamo con la paura che possa accadere (da cui l’ansia, la paura, l’egoismo, la rabbia, l’attaccamento, etc.). I nostri corpi sono soggetti all’usura del tempo, quindi ci ammaliamo, moriamo. Insomma, non è sbagliato affermare che il nostro grado di umanità si misura anche attraverso la sofferenza cui siamo soggetti.


Questi quattro sistemi filosofici, pur con delle significative differenze, partono da questa evidenza per offrire all’individuo soluzioni (speculative e metodologiche) per liberarlo da questa condizione, tradotte in veri e propri percorsi pratici, operativi tra i quali compaiono, per l’appunto, anche le tecniche meditative.


Riconoscere che la vita è lotta e sofferenza non è dunque il pretesto per chiedere all’individuo di accettare passivamente la propria condizione ma, al contrario, il grimaldello sul quale far leva per risvegliare l’energia, la forza necessaria per liberarsene. Il tutto attraverso un percorso catartico, vigoroso, proattivo tramite il quale affrontare questa situazione e in alcuni casi, superarla attraverso strumenti specifici. In questo sta la straordinaria attualità e sotto molti punti di vista la grandezza di queste filosofie, che però va detto non sono le sole disponibili.


Un altro aspetto sul quale esse convergono, sono le cause che determinano questo “dolore”.


Riflettendo un poco più affondo sul tema della sofferenza umana, possiamo constatare che tutte le nostre reazioni emotive e mentali (l’ansia che proviamo, la paura, i conflitti, le frustrazioni, gli odi, la felicità e via dicendo), non sono altro che la nostra personale risposta agli eventi di cui siamo protagonisti. Ne abbiamo già parlato in questo nostro articolo (di cui consigliamo la lettura) e ancora più abbondantemente nel nostro libro. La realtà, la vita con i fatti che vi accadono, per dirla in altre parole, non sono né belli né brutti in sé, semplicemente “SONO” e si esprimono come tali.

Il fatto che alcune volte ci facciano soffrire e altre volte gioire, dipende da come reagiamo a questa realtà, a questi fatti; alle idee, alle emozioni e agli atteggiamenti che maturiamo verso di essi. Detto in un gergo più tecnico, al modo in cui “possediamo” le nostre sensazioni, al modo in cui maturiamo l’esperienza di essere un ente cosciente e senziente.


La nostra mente si attacca alle sue preferenze, ai suoi particolarismi, alle sue rappresentazioni, ai suoi pregiudizi, alle sue opinioni, ai suoi sistemi di pensiero, alle sue credenze, alle sue abitudini e consideriamo tutti questi oggetti mentali così intimamente caratterizzanti noi stessi che ci identifichiamo con essi. Parimenti avviene quando proviamo un’emozione e diciamo “io sono felice”, come se tra questo contenuto (la felicità) e il nostro sé che la sperimenta non ci fosse distanza, ma equivalenza. Nello stesso modo diciamo “io sono un medico”, “io sono un ballerino”, “io sono un padre”, etc. come se ci fosse un’eguaglianza tra noi stessi (il nostro “io”) e la nostra professione o ruolo sociale. Tutta la nostra prospettiva fenomenica è difatti organizzata attorno all’“io sono questo” piuttosto che semplicemente intorno all’“io sono”.


Questo meccanismo è la testimonianza più evidente della nostra soggettività. Dell’esperienza soggettiva che si condensa intorno a un centro “egoico” (me stesso). Una prospettiva arbitraria del mondo, condotta sempre in prima persona (“io”) per mezzo della nostra identificazione con il corpo fisico e con l’apparato percettivo-sensoriale (mente). Questo ci induce a far coincidere ogni volta il risultato (i contenuti) delle nostre elaborazioni (gli oggetti mentali, quali idee, emozioni, sensazioni, etc.) con quella parte di noi (il nostro “sé”) che li sperimenta. Per questo spontaneamente diciamo “sono arrabbiato” invece che “provo rabbia”.


Nell’articolo che citavamo poc’anzi scrivevamo, per tentare di chiarire meglio questo concetto, di immaginare il lavoro che fa un attore riguardo alla vita del personaggio che andrà ad interpretare. Siamo l’attore, sosteniamo quel ruolo e mentre lo facciamo proviamo gioia, magari piangiamo, ci disperiamo, amiamo a seconda di quello che la scena richiede. Ma probabilmente in nessun momento della nostra interpretazione, ci verrebbe in mente di essere quel personaggio. Tra l’attore e quest’ultimo c’è sempre uno spazio. Parimenti dovremmo acquisire la capacità di inserire tra il nostro “sé” e le sue creazioni, una distanza. Che non significa dissociarsi dai nostri contenuti ma più semplicemente, riuscire ad osservarli con un fare distaccato. Divenire il testimone dei nostri stati, dei nostri pensieri, dei nostri atteggiamenti piuttosto che identificarci ogni volta con essi. Invece siamo come quel ragno che nel tessere la propria tela, ne resta invischiato. Ci lasciamo dominare dalle emozioni, dai nostri appetiti, galvanizzare da pensieri ricorrenti l’uno spesso in opposizione all’altro. Cosa ci succede quando un giorno viene meno quel lavoro o quel ruolo sociale nel quale ci eravamo a tal punto calati? Cosa ci accadrà quando le ideologie, i sistemi di credenze creduti consustanziali alla nostra stessa natura, mostreranno la loro fallacia e verranno spazzati via in men che non si dica? Quando la famiglia che credevamo fosse noi stessi, viene meno perché la persona con cui l’abbiamo costruita ci lascia? Ne verremo annichiliti poiché ogni volta, in ballo, non c’è solo la perdita del lavoro, dell’amore e della famiglia (e i problemi pratici che ne conseguono) ma il venir meno di quella parte del nostro stesso “sé” che noi abbiamo creduto coincidesse con tutti questi oggetti mentali.


Gran parte della sofferenza che proviamo nasce da un’errata modalità di porci davanti alla vita e a noi stessi. Lo stress, che è il tema dal quale siamo partiti, non fa eccezione a questa regola al contrario è la sua diretta conseguenza.


Le quattro filosofie cui accennavamo, oppongono a questo problema di fondo ciascuna percorsi differenti. Tutte però conducono l’individuo ad assumere il ruolo di testimone dei propri contenuti.


Il che non significa ovviamente non soffrire o non partecipare attivamente alla vita ma, al contrario, penetrarla più profondamente. Prendendo intimamente, risolutamente, definitivamente consapevolezza di due aspetti fondanti del nostro statuto di esseri umani. Il primo che non sono le cose al di fuori di noi stessi che sono sbagliate ma il nostro modo di approcciarle. Se io, nonostante la perdita del lavoro, capisco che io “non sono quel lavoro” e che in quanto tale, posso svolgerne altrettanti non ne risentirà la mia autostima né il mio amor proprio e guadagnerò quella libertà che ad un certo livello mi permetterà di guardare alla vita con una gioia intensa verso tutto quello che si vive.


Ripetiamo che tutto ciò non rappresenta in nessun modo una fuga dalla realtà, ma al contrario ci consegna una chiave per esercitare un forte potere su di essa. Rivoluzionando il modo di approcciarsi a questa, guarderemo ai nostri atti, ai nostri pensieri, alle paure, insicurezze, giudizi, prendendole per quello che sono: produzioni particolaristiche e arbitrarie di una piccola e fallibile mente sulle quali, anche solo attraverso l’auto-osservazione, è possibile svolgere un’attività critica, riflessiva, re-interpretandone e rivalutandone il senso e il valore. Il che porta la persona, dove possibile, a cambiare il proprio modo di guardare e dove no, a integrare determinati significati nel proprio vissuto, anche quando non può cambiare i fatti o fa fatica ad accettarli.


È da questa distanza che ci predispone all’analisi, all’autoesame, allo studio, all’indagine, l’ispezione, l’esplorazione, la riflessione su tutto ciò che ci caratterizza intimamente (paure, pensieri, emozioni, pregiudizi, atteggiamenti, sogni, bisogni, aspettative, agire, etc.) che può nascere l’azione equanime del leader e il controllo che questo esercita, sulla propria persona. Il quale a prescindere dalle preoccupazioni, pensieri o paure da cui è avvinto in quel momento, riesce a scovare la forza, la lucidità e la fermezza per fare non quello che gli viene più facile o che è più conveniente o preferibile, ma quello che è giusto agire, dire, pensare in quel momento. Abilità che donerebbe al mondo una nuova dirigenza che finalmente non re-agisce agli stimoli cui è sottoposta ma agisce. Una dirigenza in grado di governare le proprie risposte comportamentali, disciplinarle e sgrossarle in virtù di uno scopo più alto.


Tutto questo enorme raggiungimento passa attraverso una scuola o disciplina della consapevolezza. Queste filosofie realizzative non sono religioni, non c’entrano nulla con il culto rivolto a una divinità ma sono a tutti gli effetti una “scienza della mente” che basando le loro metodologie su una conoscenza profonda dei suoi meccanismi, permettono all’individuo di avversare, quando necessario, gli automatismi che dominano la dimensione cognitiva e affettiva, umana. Parallelamente di liberare il corpo dalle tensioni (fisiche, emotive, mentali) per ricaricarlo di vigore e nuove rinnovate energie. Questo in virtù dei legami profondi che sussistono tra mente e corpo.


Pensare di riuscire in certe tecniche meditative senza aver sciolto certe tensioni fisiche è ingenuo e non porterebbe a nessun risultato. Motivo per il quale nello Yoga, ad esempio, le famose posture fisiche contemplate in una sua branca (quella dall’Hatha Yoga) e alcune tecniche di respirazione (Prāṇāyāma), si propongono (tra le altre cose) proprio il compito di sconfiggere lo stress attraverso un lavoro dedicato sul corpo e sul respiro. La potente pratica di Yoga Nidra (dal Kriya Yoga) agisce profondamente sciogliendo tutte le tensioni fisiche-mentali-emotive ed essendo molto facile da praticare, risulta estremamente benefica per chi è affetto da stress cronico e soffre di disturbi d’ansia.


Si tratta nel complesso di dedicare pochi minuti al giorno alla propria persona, introducendo gradualmente queste pratiche (pochi esercizi) e considerandole fondamentali al pari del mangiare e del dormire. La mindfulness può benissimo rientrare all’interno di questo programma, anche se pre quanto ci riguarda preferiamo attingere direttamente alle tecniche meditative originarie, da cui questa è stata isolata. Meditazioni come Antar mouna, Ajapa japa, Vipassana sono un bene prezioso lasciato in eredità all’umanità e all’uomo di ogni tempo. Se uniti a Yoga Nidra e a qualche posizione yogica (va bene anche lo stretching purché praticato con metodo) e a un minimo di attività fisica (anche mezz’ora di passeggiata a passo veloce, come se stessimo in ritardo a un appuntamento, intorno al palazzo dove abitiamo), possono far accadere miracoli nella vita di una persona. Che non si tratti di vane promesse lo dimostra oramai la nutrita letteratura scientifica raccolta, tanto che tutte queste pratiche vengono oramai utilizzate in campo clinico come rimedi contro una serie innumerevole di patologie fisiche e mentali.


Il consiglio è di iniziare gradatamente lasciandosi guidare dal buon senso e ovviamente, affidarsi sempre a insegnanti esperti. Capaci di valutare lo stato di salute della persona e di guidarla attraverso queste tecniche. Alla fine di questo scritto abbiamo riportato alcuni testi che possono essere presi come riferimento. Torneremo però ad occuparci di questi sistemi singolarmente in futuri articoli.


Per concludere, ognuno di noi è in lotta costantemente contro qualcuno, la vita, la sorte, gli altri, la società. Tutti cercano le soluzioni ai loro problemi fuori da se stessi, convinti che lì si trovi il rimedio o il nemico, l’ostacolo da abbattere. Pochi sono quelli che sanno vedere in quell’additare, la proiezione di un loro limite, di una loro frustrazione, di un loro pregiudizio, delle cose che temono di più, del loro attaccamento alle cose, la reiterazione automatica di un loro schema mentale. Pochissimi sono coloro che capito questo si adoperano, lavorando su se stessi, per ovviarvi. Quest’ultimi avranno le chiavi del potere, della felicità, della forza e del successo i quali passano tutti attraverso le porte della libertà di un individuo, dalle prigioni e dai limiti invisibili della propria mente.



Note:

[1] Per chi volesse saperne di più sui danni di queste sostanze, si legga:

http://www.carabinieri.it/in-vostro-aiuto/consigli/questioni-di-vita/tossicodipendenza-da-sostanze-stupefacenti/le-principali-droghe

[2] Per chi volesse saperne di più sulla Mindfluness, di là dai libri sotto indicati, consigliamo questo articolo:

https://www.ospedalemarialuigia.it/psicologia-applicata/mindfulness/

[3] Per chi volesse sapere di più su queste correnti filosofiche legga M.Eliade (2008). “Storia delle credenze e delle Idee religiose. Vol. Secondo. “Da Gautama Buddha al trionfo del Cristianesimo”, Cap. XVII e Cap. XVIII. Bur edizioni


Bibliografia:

Un ottimo testo introduttivo a tutti i temi trattati è quello curato dallo Swami Suryamani Sarasvati (2001). Yoga e Stress. La Scienza dello Yoga per alleviare lo Stress. Edizioni Satyananda Ashram Italia


Un ottimo testo introduttivo a tutto il mondo dello Yoga è quello dello scrittore Rosario Castello (2012). Yoga. Piccola guida per conoscerlo. Youcanprint

Anche:

B. K. S. Iyengar (2003). Teoria e pratica dello yoga. Edizioni Mediterranee

Swami Satyananda Saraswati (2002). Asana Pranayama Mudra Bandha. Edizioni Satyananda Ashram Italia


Sui temi della Meditazione e su Yoga Nidra, consigliamo:

Swami Satyananda Sarasvati (1978). La Saggezza dello Yoga. Si legga il Capitolo 5 dedicato alla Meditazione. Edizioni Mediterranee

Swami Saraswati Satyananda (2001). Yoga Nidra. Edizioni Satyananda Ashram Italia

Swami Sivananda (1950). Concentrazione e Meditazione. Edizioni Mediterranee

D.Goleman, ‎R.Davidson (2017). La meditazione come cura. Bur Rizzoli

Thich Nhat Hanh (1992). Il miracolo della presenza mentale. Un manuale di meditazione. Ubaldini editore

Kabat-Zinn J. (2018). Mindfulness per principianti. Mimesis


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