- Romina Mandolini
Il lavoro di Gruppo: I suoi segreti, i suoi nemici
In tutto il nostro lavoro, ci siamo più volte intrattenuti nel ragionare sul concetto di identità sociale condivisa e abbiamo capito che questa è il segreto della leadership (ne abbiamo parlato qui, qui e qui), di una comunicazione efficace (ne abbiamo parlato qui) ed è il fondamento del “noi” intorno al quale un gruppo si consolida come tale (ne abbiamo parlato qui e qui). Non torneremo a insistere su cosa essa sia, poiché è un tema che abbiamo già trattato abbondantemente negli articoli linkati ma, trattando del lavoro di gruppo, vedremo partendo da questa quali sono gli elementi nocivi, dannosi, pericolosi che lo minacciano e al tempo stesso, quelli che implicitamente lo rendono un successo.

Partiamo da un assunto quasi banale: la qualità del lavoro che un gruppo è in grado di produrre, si lega indubbiamente alla bontà delle dinamiche che lo caratterizzano. Le persone lavorano in maniera costruttiva e produttiva quando ciò che le tiene unite assieme (valori, ideali, pratiche, cultura professionale, scopi, etc.) è condiviso e “partecipato” da ognuno, al punto tale che questi elementi divengono, per i membri del gruppo, identitari (aspetti costitutivi della loro identità) e in funzione di questo raggiungimento collettivo, questi diventano tra loro riconoscibili e distinguibili rispetto ai membri di altri gruppi.
Quando tutti questi elementi (valori, ideali, pratiche, cultura professionale, scopi, etc.) sono introiettati profondamente, raggiungere gli scopi che il gruppo si propone motiva fortemente i singoli membri a coordinarsi, a interagire, a relazionarsi, a ripiegare verso soluzioni condivise (anche a fronte dell’eterogeneità dei singoli punti di vista). In poche parole, come quegli atomi gassosi di ossigeno e idrogeno che legandosi danno vita a qualcosa di assolutamente diverso da loro: l’acqua, i singoli smettono di considerarsi isolatamente e si percepiscono come parti consustanziali di un’unità dotata di una nuova identità. Inoltre, quando questa appartenenza è connotata positivamente al punto che il far parte di quel gruppo, ovvero, l’interiorizzazione di quel materiale identitario riveste un valore profondo, l’ingaggio della persona avviene in maniera spontanea, autonoma, libera e viscerale.
Come dimostrato da molti studi psicosociali, quando le persone si auto-percepiscono in termini di identità sociale condivisa, categorizzano il proprio sé secondo gli attributi (valori, scopi, pratiche, norme, ideali, etc.) che la costituiscono. Smettono cioè di pensare, atteggiarsi e comportarsi come singoli “io”, abbracciando il “noi”. Mettono da parte i propri interessi personali, il proprio tornaconto e iniziano a caldeggiare, sostenere, occuparsi del bene e degli scopi del gruppo di cui fanno parte. Accettando su di sé, gli eventuali necessari rischi e sacrifici.
È l’identità sociale condivisa che unisce una serie di sconosciuti, sotto il tifo di una squadra di calcio cui restano fedeli, nonostante le continue sconfitte. È l’identità sociale condivisa che permette a un militare di sacrificare la propria vita per difendere il bene della propria nazione. È l’identità sociale condivisa che permette a delle persone di ribellarsi, accettare le afflizioni, i supplizi e il martirio per difendere dei valori o degli ideali di un gruppo, quando minacciati da qualcuno. È l’identità sociale condivisa che permette a un team sportivo di coordinarsi e lavorare in maniera affiatata, compatta, unitaria.
Al pari di quegli stormi di uccelli che al tramonto, si dispongono e raccordano assieme per interpretare, come fossero un solo corpo e una sola mente, movimenti figurati, ritmati e modellati su armonie suggestive di cui noi increduli subiamo l’incanto, l’identità sociale condivisa permette a degli individui isolati di scoprire la bellezza e i vantaggi dell’unità. Riunendo, concentrando le singole risorse in un flusso potete di forza unitaria, capace di smantellare ostacoli, blocchi, freni, impedimenti per realizzare imprese inimmaginabili.
Forti di queste conoscenze[1], nelle organizzazioni si stanno affacciando nuove modalità di guardare ai gruppi e al valore che questi rivestono riguardo quei comportamenti organizzativi che si pongono alla base del loro successo. Motivazione, commitment, leadership, empowerment, comunicazione efficace, resilienza, gestione del cambiamento, produttività nel lavoro, engagement, influenza sociale, persuasione, sono tutti aspetti della vita dei gruppi, regolati sulla base dell’identità sociale condivisa.
Questa è il risultato di un’opera di costruzione che il singolo individuo compie sul proprio sé. È la “maschera”, utilizzando un termine caro alla sociologia (ci riferiamo in particolare al lavoro di Erving Goffman) o il “personaggio” (come in Luigi Pirandello) che l’individuo interpreta, quando presenta se stesso in termini di ruoli sociali. In campo psicosociale tutto questo ambito di ricerche è stato esplorato all’interno di due importanti teorie, quella dell’identità sociale (Tajfel e Turner, 1979; 1986) e quella dell’auto-categorizzazione (Turner 1985; Turner et al., 1987). Ma dell’identità si sono occupate moltissime altre discipline, tra le quali ci fa piacere ricordare il lavoro degli antropologi culturali italiani Francesco Remotti[2], Marco Aime[3], Adriano Favole[4].
Ognuno di noi, ogni giorno, indossa innumerevoli “maschere” a seconda dei contesti e dei gruppi sociali di cui siamo parte (famiglia, ufficio, team sportivi, amici, gruppi tematici, partiti politici, volontariato, gruppi religiosi, etc., etc.). Quando parliamo di “maschere” o di “personaggi” dobbiamo tuttavia fare attenzione a non cadere nell’errore di pensare che tra l’individuo e queste costruzioni identitarie, ci sia una implicita “distanza”. Rappresentata dall’autoconsapevolezza che la persona ha di indossarla (o di recitare un ruolo), sapendo tuttavia di essere, nella sostanza, altro da questa apparenza. In realtà in noi questa “distanza” non c’è, viviamo interamente identificati con questi contenuti poiché ci “qualificano”. Sono la pelle, il rivestimento esterno del nostro essere che comunica informazioni sostanziali sulla nostra natura all’interno di un determinato contesto socio-culturale.
Ci presentiamo, non a caso, dicendo “io sono un ballerino”, “io sono un padre”, “io sono un tifoso”, “io sono un italiano” perché noi prendiamo dai gruppi sociali e dal materiale identitario che li caratterizza, gli attributi, i simboli, i valori, con i quali costruiamo i nostri tanti “sé socio-culturali”.
Questo processo in Antropologia culturale è conosciuto con il nome di antropopiesi e in Psicologia sociale con il costrutto “autocategorizzazione del sé”. I gruppi e le identità che ne ricaviamo, ci aiutano a capire “chi” e “che cosa” siamo, il compito che ci aspetta, i ruoli che possiamo svolgere all’interno di un dato contesto sociale e quindi a individuare i nostri scopi insieme ai mezzi attraverso i quali raggiungerli. In poche parole ci permettono di rispondere a innumerevoli domande e il tutto viene interiorizzato ad un livello talmente profondo che se per un qualunque motivo perdessimo, ad esempio, la nostra carica, la funzione, la posizione che ricopriamo in un dato contesto (es. la nostra azienda), quello che sarebbe un fatto propriamente sociale diverrebbe nella realtà un’esperienza così intima e profonda per la persona che la sofferenza, lo smarrimento che ne conseguirebbe, potrebbe avere delle ricadute importanti in termini di autostima, fino a provocare veri e propri disturbi psicologici.
Se abbiamo compreso l’importanza che rivestono le identità sociali per ognuno e per i gruppi di cui facciamo parte, viene da sé che dove queste non si coagulano (per incapacità o impossibilità del singolo di autodefinirsi, di qualificare se stesso attraverso quel “noi”), le persone possono anche essere state ingaggiate da uno specifico mandato e il gruppo riunito formalmente, ma quest’ultimo esiste solo sulla carta.
Mantenendo il focus in ambito organizzativo-aziendale, diciamo che quando viene meno l’identificazione con il gruppo di cui facciamo parte, poiché qualcosa in questo processo di costruzione è andato storto, succede che le persone, pur lavorando insieme, continuano a percepire se stessi solo in termini di singolarità isolate. Piuttosto che assimilarsi fanno di tutto per differenziarsi dagli altri membri, invece di collaborare confliggono e competono poiché interessate ad accrescere il proprio status, a perseguire i propri obiettivi o interessi individuali. Il che li porta a divenire “impermeabili” all’altro, che percepiscono come una minaccia (il confronto viene vissuto in termini di lotta e contrapposizione).
In questo caso le energie del gruppo si disperdono. Il lavoro si traduce in carichi di attività non equamente distribuiti. Le informazioni vengono nascoste per la paura di perdere il proprio status di esperti. L’accrescimento delle proprie competenze (che è la conseguenza più immediata del lavorare situato) e il confronto su aspetti magari cruciali dell’opera che si sta compiendo, è ostacolato dal timore di rendere palesi le proprie mancanze chiedendo aiuto o consigli. Il che ritarda l’apprendimento delle pratiche del gruppo ed espone a un alto rischio di errori. I singoli si muovono su iniziative personali, non condivise che escludono volutamente altri membri. La comunicazione è utilizzata in maniera infida, come arma per delegittimare l’altro, per cui abbondano pettegolezzi, malignità, maldicenze e drammatizzazioni. Capita che il gruppo si presenti frammentato in fazioni polarizzate, le une contro le altre e anche quando il lavoro viene svolto puntualmente, le relazioni sono lacerate e il clima è altamente compromesso.
Chi ha guidato gruppi di questo tipo sa bene quante energie vengono sprecate a dirimere conflitti. Il più delle volte sotterranei e per questo più acuti, i quali si riflettono nel disappunto, nella chiusura e nell’isolamento che le persone manifestano. C’è anche da dire che sulla scia di una mentalità dannosa, nociva, deleteria, alcuni manager (pochi per fortuna) creano volutamente queste condizioni perseguendo il famoso motto “divide et impera”, poiché incapaci di guidare le persone e di comprendere le ripercussioni che una strategia del genere comporta in termini di caos, disaccordi (i cui rovinosi effetti toccherà, tra l’altro, a loro stessi gestire) e risorse dissipate inutilmente.
In generale, non si tratta mai di situazioni semplici da dirimere ma a questo stato di cose è possibile opporre dei rimedi, operando su quei processi che non hanno funzionato in sede di costituzione dell’identità sociale condivisa. Magari perché trascurati o sottovalutati. Bisogna ricostituirla, eliminando le cause che hanno portato le persone a maturare del lavoro che li attendeva, solo rappresentazioni personali (ne abbiamo parlato anche in questo articolo). In questa opera di rettifica, si deve lavorare a livello di relazione, grazie all’uso mirato della comunicazione (ricordiamo che l’insieme di questi temi, sono al centro del nostro ultimo libro).
Di là da questo livello, caratterizzato per lo più da impedimenti, diciamo legati alle dinamiche di costruzione del gruppo di lavoro, la formazione dell’identità sociale condivisa può essere inibita da ulteriori concause legate questa volta, al contesto organizzativo aziendale. Pensiamo alla trasformazione repentina degli scenari (di business, culturali, tecnologici, sociali, etc.) cui le aziende sono soggette e a cui rispondono con ristrutturazioni continue dei propri assetti e/o processi, rifocalizzazione del proprio core business, contrazione dei costi, riposizionamenti di mercato, dismissioni, decentramento delle produzioni, le continue fusioni, scorpori, riduzioni del personale, ricorso ad ammortizzatori sociali, etc..
Tutto questo si riverbera sui propri dipendenti in innumerevoli modi[5].
Prendiamo, ad esempio, la disarticolazione dei processi organizzativi avvenuto a seguito dell’adozione del modello industriale cosiddetto “just in time” [6], ovvero l’approccio giapponese che ha segnato una rivoluzione copernicana nel modo di concepire i processi di produzione, di controllo della qualità, delle attività di approvvigionamento, immagazzinamento e fornitura di beni e servizi.
Si tratta di un paradigma che si è opposto alla produzione seriale e numerosa di beni (tipica della concezione taylorista) per limitarsi a produrre solo ciò che è strettamente necessario realizzare. Ponendo al centro del processo i clienti/utenti con le loro richieste effettive di beni/servizi (“Make To Order”) è possibile ottenere una serie innumerevole di benefici per tutti. Risparmio significativo dei costi, velocità nella consegna dei beni e un livello di qualità molto alto, poiché producendo ogni volta quantità ridotte è possibile, a ogni nuovo ciclo, correggere eventuali difetti, problemi.
Si tratta di un modo di far fronte alle trasformazioni repentine dei mercati, dove la richiesta di beni o servizi è variabile e sempre più variegata, restando flessibili, al tempo stesso competitivi e senza compromettere i margini operativi. Questo paradigma oramai divenuto la realtà di molti contesti industriali, ha richiesto innumerevoli trasformazioni. Sia a livello di mindset (ecco l’applicazione del famoso lean thinking e della cultura Agile) sia a livello di struttura organizzativa (le aziende si sono dovute organizzare intorno a una struttura reticolare, fluida, snella) ma anche a livello di processi. Quest’ultimi vengono reinterpretati seguendo una visione sistemica[7], che inquadra l’azienda non come un meccanismo ma come un sistema (ne abbiamo parlato in questo articolo) dotato di attività e parti costituenti, interrelate e interdipendenti, strettamente correlato all’ambiente esterno. Attraverso procedimenti di auto-regolazione interna, questa si deve dimostrare capace ogni volta di trasmutare le caratteristiche dell’ambiente in cui opera nella stessa progettazione dell’organizzazione d’impresa, attraverso assetti organizzativi più reattivi.
Questo passaggio tuttavia non è stato indolore.
La flessibilità e la versatilità dei processi è avvenuta a spese di molti aspetti identitari della vita lavorativa. I luoghi di lavoro, solo per fare qualche esempio caratteristico, si sono smaterializzati non solo a seguito del ricorso allo smart working ma perché gli spazi in ufficio sono stati ridisegnati all’insegna di questa funzionalità. Abbattuti i muri che separavano reparti e funzioni, i dipendenti si ritrovano generalmente a condividere uno spazio di lavoro funzionale comune, senza più caratterizzazioni legate alla propria appartenenza organizzativa (es. tutti gli appartenenti all’area Marketing nell’ala ovest, quelli di HR nell’ala est). In questo modo si ritrovano riuniti anonimi e differenti per esperienza e percorso professionale, qualificazione e specializzazione, differenze generazionali, contrattuali e culturali senza tuttavia poter condividere il risultato di questi vissuti o avere la possibilità e l’interesse di avviare un confronto e trovare un terreno comune. Ciascuno resta chiuso nel suo mondo, dove perfino la “propria” scrivania è stata sostituita da una postazione obbligatoriamente anonima, depersonalizzata, prenotata in anticipo e assegnata secondo le disponibilità del momento (desk sharing). Postazione che il giorno prima è stata occupata da qualcun altro e il giorno dopo lo sarà da un altro ancora: le foto delle vacanze o dei luoghi amati, le pratiche accatastate, la pianta da annaffiare, il disegno del proprio figlio, tutti cimeli “da scrivania” di un mondo che oggi non esiste già più in molte realtà aziendali.
Paritetico processo ha interessato gli orari di lavoro, smaterializzati nel senso che il “just in time” e l’ottimizzazione dei costi si è tradotta nella realtà di operare sempre a risorse ridotte, fatto che obbliga le persone a lavorare in un perenne stato d’urgenza, in una corsa giornaliera senza fine fatta di emergenze senza più orari fissi[8]. Discorso speculare riguarda i ruoli e le competenze. Le professioni vengono riaggiornate continuamente, anche a seguito dell’avanzare di sistemi di intelligenza artificiale che stanno rivoluzionando il modo di approcciare il lavoro. Al lavoratore è richiesto di abbandonare l’identificazione con una funzione specifica per dividersi su più ambiti, ricoprendo più incarichi e svolgendo diversi compiti assieme. La resilienza, tanto necessaria e raccomandata, serve ad aiutare le persone ad affrontare un’esperienza lavorativa frammentata che a volte si fa fatica a ricomporre. Il cambio continuo di attività, tra le altre cose, rallenta la formazione di una specializzazione e mortifica le relazioni con i colleghi che anche quando si vorrebbe coltivarle, si mantengono a un livello superficiale per l’impossibilità oggettiva di alimentarle.
Se a questi esempi, aggiungiamo il tema delle riorganizzazioni oramai all’ordine del giorno, l’assenza di politiche e piani industriali a lungo termine e il fatto che un manager (che sotto molti punti di vista resta, per le persone che gestisce, un riferimento), quando va bene, resta in carica due, al massimo tre anni è facile trarre una sintesi per gli argomenti che andiamo trattando.
Rintracciare il materiale con il quale costruire la propria identità, non risulta oggigiorno un’esperienza agevole per il lavoratore. Le persone non trovano appigli stabili ai quali ancorare la propria rappresentazione del sé condiviso e ciò riguarda anche coloro che pur potendo contare su una contrattazione più tutelata o su lavori più specializzati, per motivi generazionali hanno vissuto in un mondo organizzativo fatto di “certezze” e “stabilità”, ora evaporate.
Espressioni come “Non capisco cosa ci faccio io qui”, “Non comprendo a cosa serve quello che sto facendo”, “Non si capisce chi coordina il lavoro”, sono oramai divenute comuni tra le persone, le quali rispondono spesso con la paura, la sfiducia, la demotivazione, ripiegando in se stesse e rafforzando il proprio individualismo. Il che ci riporta a quanto dicevamo poc’anzi a proposito dei mali di quest’ultimo verso il lavoro di gruppo.
In questo secondo scenario la soluzione è ovviamente ancora più complessa ma come nel primo caso passa attraverso l’identità e la creazione del “senso” di far parte di un’impresa comune, inglobando la volatilità degli scenari e l’adattabilità ai sempre nuovi contesti.
Spetta ovviamente alle organizzazioni farsene carico, guidando i lavoratori in questo percorso che deve essere affrontato, attraverso innumerevoli strumenti. Non è assolutamente possibile, per ovvi motivi di spazio e di tempo, renderne conto in questo articolo. Tuttavia possiamo dire che questa operazione è agevole, pur se complessa, per quelle aziende che, a partire dal proprio management, appaiono agli occhi dei propri dipendenti coerenti (tra quello in cui dicono di credere e quello che poi sono o fanno) e per questo, credibili. Dopodiché si deve affrontare l’analisi dei problemi e le loro soluzioni in termini sistemici, organici, integrati per individuare modalità che tengano conto non di una sola categoria specifica (es. il profitto, quel progetto, gli alti vertici gerarchici) ma delle interconnessioni (cause ed effetti) che caratterizzano tutte le parti che costituiscono il sistema. Ristabilendo così un regime di reciprocità e rispetto delle differenze (di compiti, di specializzazione, di esperienze, culturali, individuali, etc.) che, di là dai ruoli e dallo status, possa garantire un confronto paritetico di tutti i diversi punti di vista e l’esplorazione di visioni diverse. Che è la premessa fondamentale per produrre innovazione e partecipazione attiva al lavoro di gruppo. Inoltre, proprio in ambienti così sfidanti, deve essere ripristinata una logica meritocratica vera, non dissimulata, che premi il merito e offra pari opportunità a tutti i lavoratori di crescere, divenire autonomi e responsabili.
Sono solo alcuni esempi concreti, tangibili di come gestire un cambiamento, dotando le persone della fiducia e del coraggio necessari cui agganciare metodologie, strumentazioni “tecniche” e tecnologiche di cui tutte le realtà imprenditoriali sono già oggi dotate. Ricordando che non sono solo quest’ultime a decretare il successo di un’impresa, altrimenti non si spiegherebbe come mai abbondano sul mercato un’infinità spropositata di analisi e teorie a fronte degli scarsissimi risultati rilevati. È e sarà ancora la componente umana a fare la differenza. In particolare saranno i gruppi coesi (magari caratterizzati da confini categoriali più allargati) piuttosto che i singoli individui isolati. Il che rende obbligatorio e urgente per le organizzazioni, rivalutarne il valore abbandonando pregiudizi e ipocrisie.
Continuare a incensare il successo del lavoro di gruppo, senza proteggere, guidare, promuovere le dinamiche che permettono ai gruppi di essere tali è come piantare semi di cocomero in un orto, annaffiarli, concimarli e poi stare tutto il tempo a sorprenderci e a discutere sul perché non siano nati i pomodori che tutti noi ci aspettavamo crescessero. Credendo ingenuamente, attraverso metodologie, schemi, calcoli, di poter alla fin fine ottenere lo stesso gusto solo perché entrambi hanno la polpa rossa.
"Non c’è alcuna possibilità di cambiare se non si parte dall’attribuzione di valore a ciascuno di quelli che sono chiamati a condividere un progetto strategico per l’azienda, rifuggendo dalla tentazione di esaurire gli sforzi e di puntare sulla revisione formali dei processi, come se la bellezza del disegno e la sua razionalità fosse di per sé una ragione evidente per tutti per alimentare la sua desiderabilità.
Creare “senso” per quello che si prospetta richiede prima di tutto un lavoro di accreditamento per coloro che hanno la responsabilità nell’indicare il percorso e gli obiettivi, con il corollario di rendere evidente che la testimonianza sul fatto di crederci passa dal cambiamento di relazioni tra chi comanda e chi è chiamato ad eseguire.
L’autorità, di per sé, non è più una leva che può funzionare in assenza di credibilità.
[…] In azienda “performance” indica il “risultato”, la capacità oggettivata di contribuire alla realizzazione di un compito.
In realtà nel tempo, molto spesso il degrado di criteri e di pratiche, specie ai livelli alti, ha finito per teatralizzare la ‘performance’ aziendale, privilegiando la rappresentazione più che il risultato.
E questo ha contribuito al deficit di credibilità che ha accompagnato molti progetti di cambiamento vissuti come specchio deformante di una realtà che cambia solo a parole, nelle slides dei consulenti, o nelle correnti liturgie che affidano al cambio di organigrammi e di ordini di servizio l’illusione di un mutamento di passo che spesso è solo un mutamento di stile.
Chi vuole guidare un cambiamento effettivo deve offrire la percezione visibile che si cambia in alto prima di chiedere la fiducia a quelli cui si chiede di cambiare in basso: abbandonando metodi che non “risuonano” più, sapendo che bisogna dedicare tempo personale per fare accadere le cose, mescolandosi al di là dei ruoli e delle posizioni.
Soprattutto rendendosi conto che senza innescare il racconto di una storia che dia a tutti la possibilità di giocare un ruolo coinvolgente, nessun cambiamento potrà andare lontano."
di Pier Luigi Celli
Tratto dalla prefazione al libro di Umberto Frigelli[9]
[1] Un testo da prendere come riferimento in questi studi è Haslam A. S. (2016). Psicologia delle organizzazioni. APOGEO
[2] Un buon testo sul quale approcciare la tematica è F. Remotti (2013). Fare umanità: I drammi dell’antropo-poiesi. Edizioni Laterza
[3] M. Aime (2020). Classificare, separare, escludere. Einaudi
[4] A. Favole (2018). Vie di fuga: Otto passi per uscire dalla propria cultura. UTET
[5] Per una panoramica di questi fenomeni si legga il libro G. Gosetti (2012), Lavoro frammentato, rischio diffuso. lavoratori e prevenzione al tempo della flessibilità. FrancoAngeli
[6] Productivity press development team (2017)). Just in time. Produrre a ritmo di mercato. Editori Fabrizio Bianchi, Luigi Battezzati, Productivity press development team
[7] S. Barile (2008). L’impresa come sistema. Contributo sull'Approccio Sistemico Vitale (ASV). Giappichelli
[8] G. Gosetti (2012), Lavoro frammentato, rischio diffuso. lavoratori e prevenzione al tempo della flessibilità. FrancoAngeli, pag. 97
[9] U. Frigelli (2017). Guidare il cambiamento organizzativo. FerrariSinibaldi
Si legga anche:
R. Bonato (2016). La famiglia flessibile. Gli effetti transgenerazionali della flessibilità lavorativa. Il caso di Milano. FrancoAngeli
P. L. Celli (2021). Lezioni per imprese nostalgiche del futuro. Che cosa stiamo imparando dalle crisi. ESTE
R.Mandolini (2021). Project Management. Fondamenti psicosociologici di leadership e comunicazione nella gestione dei gruppi di lavoro. Nuove risposte a vecchi quesiti . Youcaprint
R. Sennet (1999). L’uomo flessibile. Le conseguenze del capitalismo sulla vita personale. Feltrinelli