- Romina Mandolini
“L’essenziale è invisibile agli occhi”
Aggiornamento: 30 dic 2021
Indagare la natura dei meccanismi che ci muovono interiormente, significa svelare i segreti di una leadership esemplare, capace di perseguire indefessamente i propri obiettivi senza perdersi nel mare magnum dell’automaticità.

Immaginate di essere un attore impegnato a interpretare un personaggio. Ne rappresentate la volontà e la personalità, impersonandone il pensiero, le aspirazioni, i sogni, le paure. Quando qualcuno vi intervista, siete in grado di spiegarne facilmente la psicologia e i comportamenti. Fragilità, forza, vizi, virtù. Il carattere, gli errori che commette e le ragioni di quelle scelte. Del resto (a) avete studiato il personaggio; (b) immedesimandovi con questo, ne avete esplorato a fondo la psicologia anche se (c) resta tra voi e lui quella salutare distanza. Alla fin fine, questi non è altro che un prodotto fantasioso che vive all’interno in un contesto finzionale. Fintanto che siete impegnati nella recitazione vivete la sua vita, soffrite i suoi dolori e vi rallegrate con le sue gioie, ma quando la scena si conclude e vi spogliate di quegli abiti, tornate ad essere l’attore e la sorte del personaggio, non è più affar vostro.
Immaginate adesso se ognuno di noi potesse conoscere se stesso, attuando il medesimo procedimento. Inserendo cioè una distanza tra i contenuti della nostra coscienza (idee, giudizi, emozioni, repulsioni, attrazioni, atteggiamenti, sentimenti, etc.) e il loro autore, il nostro sé. Invece noi siamo portati a identificarci totalmente con questi. Siamo quello che proviamo o pensiamo e uno dei motivi per il quale questo accade è dovuto al meccanismo che sottende alla formazione di questi contenuti. Si tratta di processi cognitivi di elaborazione e rappresentazione delle informazioni, automatici. Si svolgono senza che da parte nostra ce ne sia la consapevolezza. Questo sancisce l’impossibilità di operare su questi un controllo e anche quando volessimo porre rimedio a questo stato di cose, non sappiamo come funzioniamo né qualcuno ci ha insegnato come impararlo.
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A breve capiremo cosa c’entra questo discorso con la leadership e la mindfulness, nel frattempo per comprendere quale conseguenza comporta per la nostra autodeterminazione questo aspetto della nostra cognizione, dobbiamo osservare più da vicino il funzionamento di questa automaticità. Analisi che condurremo con questo esempio:
È mattina e sta camminando frettolosamente per una via del centro, all’altezza di quella famosa pasticceria. Sorride al ricordo di una discussione con un collega, anni addietro, su quale fosse la migliore della città. Quell’amico oggi è in pensione “chissà come gli stanno andando le cose?”. L’aria nei dintorni è un caldo, dolce, profumo di vaniglia, con note intense di caramello e burro fuso. Sa di essere in ritardo all’appuntamento ma non può resistere a quel richiamo, si avvicina al bancone di quel negozio e si abbandona a quelle delizie.
È molto stimolante l’esercizio di riuscire a fotografare ciò che avviene nella nostra mente anche solo per una manciata di secondi. Ce ne sono testimonianze memorabili, in tutta la grande letteratura europea del ‘900. Venendo al protagonista di questo frammento, “la vista” della pasticceria è lo “stimolo” per richiamare alla mente un ricordo da cui, per qualche minuto, si lascia assorbire. Questo ricordo, a sua volta, desta in lui la curiosità di sapere come sta quel collega oggi in pensione. Un desiderio che, almeno in quel momento, non è così forte da spingere il protagonista ad azionarsi a livello motorio chiamandolo, ad esempio, al telefono. Cosa che invece accade con un altro “stimolo”, l’odore dei dolci, il quale lo induce a un cambio di atteggiamento e per buona pace di chi lo stava aspettando, si ferma in quella pasticceria per gustare quei dolci.
Si tratta di una fotografia approssimata sul come funzioniamo. Ecco, quello che noi romanticamente rivendichiamo a volte come libero arbitrio, vale a dire la nostra capacità di scegliere liberamente cosa pensare e come agire, tramite l’esercizio della nostra volontà, in molti momenti della nostra esistenza, non è altro che una pia utopia. Come per il protagonista di questo racconto, la nostra vita interiore non è altro che il risultato di una concatenazione di azioni e re-azioni in cui la volontà non è mai stata presente.
Non ha pensato a quel ricordo volutamente (ma stimolato dalla vista della pasticceria), né ha pensato intenzionalmente al suo amico (poiché è stato il ricordo che glielo ha richiamato alla mente), né aveva programmato di fermarsi per mangiare dei dolci prima di quei profumi, poiché era preso dal ritardo al suo appuntamento.
Secondo la psicologia cognitiva, più del 90% di ciò che ci caratterizza interiormente si svolge in questo modo. Attraverso un concatenamento automatico di stimoli-cause ed effetti che ridiventano a loro volta nuovi stimoli per ulteriori elaborazioni. Tutto questo grande caos guida, la maggioranza delle volte, la formazione delle nostre idee, giudizi, atteggiamenti e comportamenti. Eppure pochi hanno riflettuto sulle conseguenze che tutto ciò comporta nella vita di ciascuno di noi e in particolare, in quella di coloro che hanno la responsabilità di guidare altre persone. Proviamo con questo secondo esempio.
Sei il responsabile di un importante store, affiliato a un noto brand di un’azienda multinazionale che produce smartphone, computer, dispositivi multimediali e sistemi operativi. Oggi per te è una bellissima giornata, sono stati ufficializzati i trend delle vendite e per il quarto semestre consecutivo, il tuo negozio si è posizionato tra i primi in Italia. Non stai più nella pelle, con una insolita umiltà che poco ti si addice fai i complimenti a tutta la tua squadra, “Ringrazio tutti per il vostro impegno, il duro lavoro, la professionalità. Siamo una famiglia, apprezzo la vostra autonomia, la vostra creatività nell’individuare nuove soluzione ai molti problemi, non potevo sperare di avere al fianco persone migliori”.
Finiti i festeggiamenti, attraversi il negozio e noti i gesti scomposti di un commesso. Ti avvicini e senti il ragazzo rispondere a una cliente “faccia un po’ come vuole” prima di allontanarsi. Quando gli chiedi conto di quel comportamento, ti spiega che la cliente era stata molto maleducata e perfino aggressiva. Ma le sue ragioni in realtà non ti interessano. Ribadisci in maniera seccata al ragazzo le regole sulle quali hai costruito il successo del negozio. Lui però ti interrompe per spiegarti i motivi della sua reazione, ma tu lo azzitti bruscamente. I conflitti con i clienti non si debbono vivere a livello personale, è sbagliato reagire. Dobbiamo essere umili, educati, calmi e focalizzati sulla soluzione del problema che il cliente ci sottopone.
Mentre ti allontani rifletti su quanto sia incettabile che dopo tanto insistere, non abbiano ancora imparato come affrontare queste situazioni. Se non ci fossi tu a sorvegliare questo posto. Oltretutto non hai gradito il modo in cui ti ha interrotto. Continuava ad insistere sulle sue ragioni, invece di ascoltare. Quanta presunzione! E poi sei pur sempre il suo capo.
Leggermente risentito per l’accaduto, ti incammini verso la macchinetta del caffè. Lì incontri una delle responsabili di reparto che ti fa i complimenti per l’abito che indossi. Dice che i risultati della dieta cominciano a vedersi e siccome sai di essere dimagrito, il fatto che qualcuno cominci a notarlo ti rende particolarmente felice. La cosa, in effetti, solleva in te un entusiasmo che fai fatica a contenere. Inizi a scambiare con lei delle battute spiritose sull’argomento suscitando sorpresa nella dipendente che non si aspettava di certo, la familiarità con cui le parli. Nel frattempo, lì vicino, c’è una giovane cliente che assiste alla scena, ti guarda e ti rivolge un grande sorriso. Resti turbato da quella figura “è davvero incantevole” ma quando stai per avvicinarti con la scusa di chiederle se ha bisogno di aiuto, arriva un tuo dipendente con un’emergenza.
C’è un problema con l’ingresso degli ordini. L’interfaccia informativa del negozio è fuori linea e non si riesce a lavorare da almeno due giorni. Questa notizia ti agita, ti disorienta; perché lo stai scoprendo solo in quel momento? Uno degli addetti ti risponde che il numero verde dell’assistenza aveva assicurato che si trattava di un contrattempo momentaneo, il problema è gestito centralmente, ma sono oramai due giorni che non si riesce a lavorare come si deve. Il negozio, tra l’altro, è monitorato dalla casa madre settimanalmente proprio su questo parametro e questo ritardo rischia di incidere pesantemente sull’analisi delle performance complessive.
Sale un nodo di nervosismo misto ad ansia. Ti attacchi al telefono per chiedere maggiori informazioni. Dall’altra parte un sistema di risposta vocale interattiva ti chiede di selezionare, tramite tastiera telefonica, i numeri che corrispondono al motivo della tua chiamata. Dopo dieci minuti di snervante attesa, finalmente risponde un operatore. Provi a spiegargli il motivo della tua chiamata ma nemmeno hai appena iniziato e già ti interrompe. Dice che non è quello il numero da chiamare. Ti spiega che devi andare sul sito della casa madre, aprire una segnalazione dopo essersi autenticati. Seguirà la chiamata di un tecnico per la soluzione del problema.
Spazientito le fai presente che l’ultima segnalazione è stata aperta dai tuoi collaboratori la sera prima ma l’operatore ti interrompe di nuovo. Dall’apertura del ticket, il tecnico ha 24 ore di tempo per intervenire “deve pazientare ancora un po’”. A quel punto le urli contro che la tua pazienza si è ormai esaurita… ma l’operatore, questa volta, ti chiude su due piedi la chiamata…
Il fatto di essere stato trattato al telefono in quel modo, ti manda su tutte le furie. Ti rivolgi ai tuoi collaboratori con toni aspri e gli urli contro che è colpa loro se la situazione è arrivata a quel punto. Dovevano avvertirti immediatamente. Furibondo esci da quella stanza e ti dirigi presso il tuo ufficio. “Lavoro con gente completamente inaffidabile” pensi, mentre sul telefonino cerchi nervosamente il contatto di quel tecnico di cui ora proprio non riesci a ricordare il nome. Nel tragitto incroci di nuovo la responsabile di reparto con cui ti eri intrattenuto fino a qualche minuto prima. Ti rivolge una battuta spiritosa ma tu nemmeno le rispondi “come si permette questa di prendersi tutta questa confidenza!?”.
Mentre cammini ti ferma un cliente per chiederti notizie sulla data di uscita dell’ultimo modello di IPad. Sta decidendo se prenotarlo in quel momento o se ripassare, ma l’occasione è ghiotta per coinvolgerti in uno sfinente logorroico sproloquio sulle considerazioni che lo hanno portato a decidere per l’acquisto di questa nuova versione. Cerchi con lo sguardo intorno a te qualcuno che possa sostituirti ma in quel momento, le persone sono tutte indaffarate. Ti sforzi di dissimulare la tua profonda irritazione con sorrisi di facciata, ma il suo discorso è così fastidiosamente lungo e tu sei così alterato che il cliente percepisce il tuo nervosismo e infastidito, te lo fa notare. A quel punto il sorriso che avevi stampato sul volto diviene ancora più teso, la voce si fa gelida e il tuo tono sarcastico. Lui permalosissimo prende questa tua reazione come una mancanza di rispetto nei suoi confronti e ti accusa davanti ai tuoi dipendenti, di essere un gran maleducato. La situazione ti sfugge di mano ed esplodi in una brutta discussione che si conclude con il cliente che uscendo ti urla che non rimetterà più piede nel negozio.
Mentre stai cercando di ricomporti ecco che squilla il tuo telefonino. Uno dei responsabili della casa madre, vuole farti personalmente i complimenti per i tuoi risultati e ti comunica che nella prossima convention ti premieranno tra i migliori manager dell’area centro-sud.
Non riesci a credere alla notizia, era il riconoscimento che aspettavi da una vita. Ringrazi ossequioso e parli con una voce che per la forte emozione, ti esce stridula. Già ti immagini lì su quel palco commosso mentre tutti intorno ti applaudono e si complimentano per il tuo successo. Il tuo umore si è immediatamente risollevato, il sole è tornato a brillare nella tua interiorità. Ti guardi intorno e sei orgoglioso di quello che sei diventato e di quello che hai realizzato. Eh riguardo alla gravità del contrattempo di poco fa con gli ordini? Eh riguardo alla figuraccia che hai fatto con quel cliente? Pazienza, contrattempi che capitano, non c’è nulla alla fine che non si possa sistemare.
L’esercizio cui ci siamo appena dedicati, ci è servito per mostrare la rilevanza dei temi di cui ci stiamo occupando quando rapportati alla leadership.
Proviamo ad analizzare il fare del protagonista nei termini di cui abbiamo discusso poco fa. Innanzitutto è evidente l’assenza in questi di un centro interiore immobile fatto di coscienza (riguardo alle motivazioni che lo spingono ad agire), attenzione e distacco. Difatti la serie di associazioni meccaniche che prendono vita dai vari “stimoli” orientano per intero atteggiamenti, giudizi, comportamenti del protagonista del racconto.
L’iniziale buona notizia sui risultati raggiunti nelle vendite, (stimolo) lo predispone favorevolmente nei confronti del suo gruppo e sulla scia di questa contentezza, ne tesse le lodi e le virtù.
Dopodiché impartisce una lezione a un commesso sul come si trattano i clienti, ma con un fare discriminatorio (verso il punto di vista espresso dal commesso che viene puntualmente ignorato) e sulla scia di un pregiudizio (è evidente che il protagonista si ritiene superiore a tutti gli altri che tratta da sottoposti). Ricordiamo che molti studi psicologici hanno confermato che i pregiudizi sono impiegati dalle persone, senza che ci sia consapevolezza in chi li usa. Parimente al fare discriminatorio, che è il metro valutativo del pregiudizio.
Questo è così vero che il tentativo che il ragazzo fa di spiegargli le sue ragioni, viene vissuto a livello personale come un’offesa, una delegittimazione della sua autorevolezza (stimolo). L’irritazione provocata però, viene spazzata via dal complimento (nuovo stimolo) di una dipendente. Sulla scia di questa euforia che lo domina, il tizio viola senza accorgersene la regola della distanza tra ruoli. Tanto che la ragazza si sorprende della confidenza che le viene concessa.
Dopodiché questa gioia viene ancora una volta spazzata via non tanto dal problema degli ordinativi, ma dal modo in cui il protagonista, tronfio di sé, viene trattato dall’operatore (stimolo). Sulla scia di quella rabbia offende i propri collaboratori, ignora e guarda con disappunto al comportamento della ragazza con cui fino a un attimo prima si era aperto e soprattutto viola una delle regole principali in cui dice di credere, offendendo un cliente in maniera infinitamente più grave di quanto il commesso avesse fatto poco tempo prima e questo solo perché incapace di controllarsi.
Ovviamente tutto questo viene improvvisamente meno nel momento in cui una notizia lo gratifica egoicamente (nuovo stimolo).
Dunque, per riassumere, quello che quando depresso gli appare grave o critico, quando ottimista cessa di esserlo. Parimenti ciò che lo preoccupa diventa urgente ma se arriva una novità a distrarlo da quell’apprensione, cessa immediatamente di esserlo. Ugualmente quello che quando è irritato sembra inaccettabile o gravissimo, l’attimo dopo con il buonumore diventa comprensibile e addirittura accettabile.
Per aiutare il lettore a comprendere meglio queste dinamiche, approfondite nel nostro ultimo libro “Project Management. Fondamenti psicosociologici di leadership e comunicazione nella gestione dei gruppi di lavoro” saremo costretti, in futuri articoli, a parlare di schemi cognitivi, attivazioni e aspettative schematiche insieme al ruolo che queste strutture cognitive svolgono nella nostra coscienza. Se riuscissimo ad osservarci con un certo distacco, ci accorgeremmo che buona parte di tutto ciò che ci caratterizza e spinge all’azione non è altro che il risultato di un collegamento che si verifica in funzione di rapporti di causa e di effetto o di interdipendenza tra queste strutture cognitive (che rappresentano le nostre idee, giudizi, emozioni, repulsioni, attrazioni, ricordi, atteggiamenti, sentimenti, comportamenti, routine, etc.) che si legano tra loro in funzione di una parola, situazione, immagine che funge da attivatore o stimolo. Realizzando le connessioni di ordine logico che abbiamo mostrato in questi due esempi.
In tutto questo dove si colloca la volontà della persona e il suo libero arbitrio? Soprattutto, possiamo avere la presunzione di guidare altri individui e pregiarsi di esserne il leader, quando esercitiamo poco o nessuno controllo in primis su noi stessi?
Giudichiamo obiettivamente le situazioni, fissiamo la scaletta delle priorità, condizioniamo la vita degli altri, ne giudichiamo il valore sulla scia di meccaniche re-azioni di cui non sospettiamo nemmeno l’esistenza. Ci inventiamo una vita interiore che in realtà è un groviglio inarticolato di rapporti di causa ed effetto, in cui tutto in noi accade, tutto in noi ci possiede, tutto in noi ci domina. Su tutto questo intrico di elementi arruffati e confusi, nel tempo si struttura il nostro carattere, i nostri gusti, le nostre abitudini e le nostre personalità.
Si tratta di aspetti con i quali tutti dobbiamo confrontarci e poiché chi gestisce gruppi di persone al contrario deve essere capace di azione e non vivere di re-azioni dovute alle spinte del momento. Non solo perché può rischiare di distruggere quello che fino al momento prima ha costruito, ma per essere esemplare per gli altri e idoneo a tracciare il percorso che gli altri dovranno seguire, si presuppone che sappia spingersi dove gli altri non riescono. Realizzando un equilibrio e una stabilità che non dipenda da fattori contingenti, interni o esterni.
Essere una guida valida significa essere capaci di restare lucidi, obiettivi, equanimi, giusti anche mentre tutto in noi o intorno a noi è in subbuglio o stancante, sfidante, incerto, difficoltoso, molesto e quindi per tutti gli altri insopportabile. Significa ergersi al di sopra dei propri particolarismi anche quando gli altri vi si limitano e dai propri affanni, insicurezze, paure per conquistare una equanimità ed equilibrio interiori, fondamentali a supportare la sua azione e il suo potere. Si tratta di un duro lavoro che passa attraverso la conoscenza di sé e la continua auto-osservazione dei propri moventi.
Ebbene questo obiettivo personale è esattamente ciò che si persegue attraverso determinate pratiche meditative. Questo articolo in effetti ci consente di rispondere in maniera chiara e precisa a tutti quelli che si interrogano su che cosa sia la meditazione e soprattutto a che cosa serva davvero.
Anche in questo ambito, si è scritto tutto e il contrario di tutto. Di là dai fini ultimi che sono di ordine metafisico e che in questo contesto a noi non interessano, determinate pratiche meditative e la preparazione psicofisica che queste richiedono, hanno il fine di creare una distanza tra noi e i contenuti che animano la nostra coscienza. Il che ci permette di riuscire in quello che non avremmo mai immaginato di poter fare, diventarne consapevoli, osservarli in maniera distaccata. Come quell’attore cui accennavamo agli inizi, quando è intento a studiare il personaggio. Dopodiché, una volta che il guardare ci permette di capire come funzionano queste associazioni, provare a intervenire arrestando il meccanismo associativo o quantomeno imparare a gestirlo. Così da attivarci non sulla scia di un automatismo ma in funzione di cosa è giusto fare o dire in quel momento. Il che vuole dire, quando è di interesse per noi, smettere di essere lo zimbello delle proprie emozioni o associazioni.
Inoltre mentre questo avviene si fortifica la nostra forza mentale, la capacità di analisi e aumenta considerevolmente la nostra resistenza allo stress. Motivo per il quale, l’adozione di questa disciplina, riserva una serie incredibile di sorprese a tutti coloro che la introducono nella propria vita.
Nei prossimi articoli cercheremo di capirne qualcosa di più.