- Romina Mandolini
Essere leader: rivoluzionare l'approccio
Aggiornamento: 30 dic 2021
Comprendere la materia di cui è fatta la leadership, significa costruire il proprio potere su solide fondamenta. Esistono innumerevoli approcci, uno tra questi rivoluziona completamente la concezione ordinaria per porre al centro del dibattito, non la personalità del singolo leader ma le proprietà di quel “noi” che questi ha l’ardire di voler rappresentare.

Prima di cominciare a leggere l’articolo è bene che il lettore sappia che quello a seguire è il primo di una serie composta da tre articoli introduttivi al tema della leadership. Questo dunque andrebbe letto in sequenza con gli altri due o comunque in concomitanza. Gli articoli sono: (1) “Essere leader: rivoluzionare l’approccio”; (2) “Leadership: uno, nessuno e centomila”; (3) “La costruzione di una leadership”.
Chi guida gruppi, di là dal contesto in cui opera e dalla complessità degli scenari attuali (la loro instabilità, volatilità, incertezza), vive professionalmente schiacciato tra due forze. Da un lato la pressione del top management o di chi si aspetta da lui il raggiungimento degli obiettivi propri dell’ambito e del ruolo che ricopre, in linea con le strategie e la vision dell’organizzazione per cui sta operando. All’altro capo, invece, le rivendicazioni, frustrazioni, malumori, aspettative, bisogni, egoismi delle persone che guida. Tra l’altro, gli uni (il top management o chi per esso) e gli altri (i membri del gruppo), si aspettano che sia lui a dirimere i principali nodi. Il che lo obbliga a dimostrare ogni giorno, le proprie capacità e abilità.
Sviluppare doti manageriali è dunque una sua necessità imprescindibile e costruire, migliorare o rafforzare la propria leadership, lo è ancora di più. Non fosse altro perché un leader ottiene spontaneamente, quello che un normale manager non avrà mai: l’impegno, la dedizione, l’adesione profonda delle persone alla causa.
Quando tuttavia, il nostro o la nostra professionista, si muove in questa direzione si trova davanti a un’ennesima insormontabile difficoltà: un’infinità di teorie o formule che rivendicano, ciascuna, l’assolutezza della propria verità sulle altre. Una mole spropositata di informazioni, tra loro spesso contraddittorie, da cui deriva un’abnorme produzione di manuali, libri, riviste, master, scuole, corsi, metodologie dove è complicato se non impossibile, orientarsi. Quale rappresentazione o soluzione scegliere, tra le tante che il mercato propone?
Per orientare le nostre valutazioni, dobbiamo trovare la risposta a quella che probabilmente è “la domanda di tutte le domande”: Cosa è che determina in una persona, la capacità di influenzare i membri di un gruppo al punto tale che questi ne sposano la visione e volontariamente, si fanno oggetto e strumento della sua azione?
Sono state date innumerevoli risposte a questa domanda. Proviamo a passarne in rassegna le principali.
La prima e probabilmente quella più consolidata nell’immaginario collettivo delle persone, è che l’influenza di un leader dipenda, soprattutto, dai tratti della sua personalità o del suo carattere. Lo storico Thomas Carlyle nel 1841, con la sua teoria del “grande uomo”, riduceva la grandezza di una leadership tutta in termini di caratteristiche umane. Più in generale, secondo questo modello di pensiero, i leader riescono in quello che fanno perché sono: intelligenti, visionari, coraggiosi, imperturbabili, autorevoli, abili, tenaci, caparbi, geniali, sinceri, lungimiranti e chi più ne ha più ne metta. Nella forma più radicale, vengono considerati dal pensiero comune una sorta di predestinati. Una categoria umana a sé i cui attributi, di là dai contesti dove operano, li collocano in un immaginario fantastico e per lo più inaccessibile a noi comuni mortali. Il che è affascinante da leggere e comodo per qualcuno pensarlo, ma quando ci si cala nella realtà dei fatti questa spiegazione crea più problemi di quanti ne chiarisca.
In questo modello di pensiero, rientrano, anche quelle teorie che guardano non alla personalità ma alle azioni che questi svolgono, i propri comportamenti. Come il prendersi cura delle persone, ascoltarle, entrare in empatia con esse, utilizzare un certo stile di comunicazione, etc., etc., un po’ sulla scia di quello che è il modello della “Servant leadership”, ideato da Robert K. Greenleaf (1970) e ripreso da Larry C. Spears.
Una seconda risposta, invece, pur riconoscendo l’importanza delle caratteristiche del leader, identifica come rilevante anche la variabile situazionale o contingente (si veda il lavoro di Fred Edward Fielder (1967) con la sua Teoria della Contingenza). A differenza del primo approccio, questo secondo ritiene che non tutti i leader siano adatti a gestire con successo tutte le situazioni. Le predisposizioni interiori (es. orientamento al compito, piuttosto che alle relazioni – si vedano gli studi evidenziati al riguardo da Robert Freed Bales, 1950) si traducono in un’azione vincente, quando le situazioni in cui opera sono congeniali a queste stesse. Cosicché per essere un leader influente e di successo, si deve tenere conto anche delle caratteristiche del contesto in cui lo stesso opera: situazioni diverse difatti richiedono leader differenti. Il problema, tuttavia, è che queste conclusioni implicherebbero, ogni volta, la scelta del leader più adatto sulla scia di un algoritmo, inoltre minano alla base la validità di concetti come la resilienza o la gestione del cambiamento, che oggi sono probabilmente i primi requisiti che vengono richiesti a coloro che operano all’interno delle organizzazioni.
Una terza risposta, diversamente, ha a che fare con un aspetto, se vogliamo, più utilitaristico. La leadership, nel modello Transazionaledi Hollander (1958), ripreso poi da Bernard Bass (1990), ha successo quando è in grado di massimizzare i benefici reciproci tra membro del gruppo e leader, ad esempio attraverso incentivi economici, premi, oppure evitandogli punizioni. Dunque, più il leader permette ai membri del suo gruppo di raggiungere i propri obiettivi, più questi conferiscono alla sua leadership prestigio. Ci sono tuttavia innumerevoli esempi di leadership che contraddicono questo paradigma. Ad esempio, un soldato che combattendo accetta il sacrificio della propria vita, quali benefici ne ricaverebbe? Oppure un tifoso di una squadra di calcio che perde spesso le sue partite, perché continua ad appassionarsi al suo destino?
Ecco allora di seguito, una quarta risposta. Ciò che rende un leader influente è senz’altro il suo carisma, sulla scia delle considerazioni introdotte sul tema dal sociologo Max Weber. Riattualizzando nell’ambito della gestione dei gruppi, questo modo di intendere la leadership, il successo dei leaders dipenderebbe dalla capacità, abilità, che questi hanno di trasformare motivazione e comportamenti dei propri collaboratori in funzione del proprio carisma (si vedano i lavori di James MacGregor Burns (1978) e la teoria della leadership Trasformazionale ripresa e approfondita da Bernard Bass (Bass & Avolio, 1993)). Le persone, in sostanza, partecipano attivamente all’azione del leader per il fascino che questo, con il suo esempio, esercita su queste. Su questa scia le persone vengono ingaggiate profondamente e ispirate, motivate dal leader a perseguire interessi comunitari, piuttosto che personali. Il problema in questo modello, tuttavia, sorge nel momento in cui si cerca di definire cosa si intende con la parola carisma, quale è la sua natura. Quando si tenta questo esercizio difatti, ci si ritrova con una descrizione di tratti che ci riporta alla definizione di leader stesso, in una sorta di loop senza soluzione.
C’è però una differenza in questi due ultimi modelli. Pur con le loro sostanziali differenze, la leadership è descritta non come una caratteristica propria della persona ma come qualcosa che si costruisce nella relazione tra questa e i membri del suo gruppo.
Questo tema, viene ripreso e ampliato in un’ulteriore teoria, quella della Categorizzazione della leadership di Lord (Lord, Foti e De Vader, 1984). Qui la risposta alla domanda che ci facevamo agli inizi, si rintraccia nella percezioni che i membri del gruppo hanno del leader. Di estrazione prettamente cognitiva, questa teoria poggia sull’assunto che la percezione di ciascun membro del gruppo è organizzata intorno a degli stereotipi di leadership. Le aspettative che queste strutture del pensiero umano generano, disciplinano come il proprio leader dovrebbe agire o comportarsi nelle diverse situazioni in cui esplica la sua funzione. Dalla più o meno aderenza tra aspettative e comportamenti, chi guida il gruppo appare agli occhi delle singole persone del suo gruppo un vero leader o uno che non lo sarà mai.
Questa teoria dunque, contrariamente alle altre, sposta totalmente l’attenzione dal leader ai membri del suo gruppo. Le caratteristiche che rendono una persona adatta a ricoprire quel ruolo, dipendono soprattutto da che cosa significa per i singoli membri, essere un leader. Per questa teoria, la leadership è difatti il prodotto di un processo mentale di analisi che i singoli membri del gruppo compiono. Il problema, tuttavia, è questo sbilanciamento verso l’importanza che nel modello riveste il singolo, mentre i leader non guidano insiemi di singoli individui ma gruppi che sono qualcosa di più di questo.
Quelli illustrati finora sono i maggiori filoni che popolano il panorama delle teorie sorte intorno alla leadership. Hanno risposto solo in parte alla nostra domanda iniziale e spesso sollevando altrettanti dubbi.
C’è tuttavia una “relativamente” nuova teoria, nata in ambito psicosociale, che da qualche anno sta raccogliendo importanti conferme sul campo e che nell’integrare molti degli aspetti evidenziati nelle teorie precedenti, rivoluziona completamente il punto di vista da adottare.
In realtà più che di una vera e propria teoria ci troviamo davanti all’applicazione, nello studio della leadership, di conoscenze derivate da due importantissime teorie psicosociali, la Teoria dell’identità sociale (Tajfel e Turner, 1979; 1986) e la Teoria della categorizzazione del sé (Turner 1985; Turner et al., 1987). Conoscenze che vale anticipare, sono riuscite a spiegare insieme alla leadership e con altrettanta efficacia, moltissimi altri comportamenti organizzativi fondamentali inerenti i gruppi. Quali la loro produttività, il commitment dei membri, l’empowerment delle persone, l’efficacia delle loro comunicazioni. Comportamenti, atteggiamenti votati al bene comune e al perseguimento degli obiettivi collegiali.
Cercando di semplificare il più possibile il discorso, quando ognuno di noi autorappresenta se stesso o si presenta agli altri, lo fa attraverso due modalità. Secondo i tratti che caratterizzano la propria identità personale privilegiando aspetti legati alla propria persona come il carattere e attributi propri (es. sono intelligente, sono introverso, sono sensibile, etc.), oppure secondo i tratti distintivi che appartengono ai gruppi sociali con cui si identifica e da cui deriviamo le nostre identità sociali (es. sono un dottore, sono un ballerino, sono un italiano, sono una manager, etc.). La riprova di questo fatto sta nell’evidenza che abbiamo dalle persone (e da noi stessi) quando rispondiamo alla domanda “chi sono io?”. Ecco, l’identità con la quale ognuno di noi si presenta agli altri è sempre una miscellanea tra questi due poli, personale e sociale. Per cui a seconda del contesto in cui la persona opera e dell’identità che in quel momento è saliente, questi può rispondere: Un padre di famiglia, un cattolico, un ciclista, il tifoso di quella squadra, una persona introversa, un uomo. In questo esempio, per la stessa persona, le ultime due riposte fanno riferimento all’identità personale, le altre alle diverse identità sociali.
Molti studi hanno dimostrato che la diretta conseguenza di questo fatto è che quando ci rappresentiamo in termini di identità sociale, tendiamo a mettere da parte i nostri interessi personali per patrocinare quelli del gruppo con cui siamo identificati in quel momento. Così in alcuni momenti sono gli interessi della nostra famiglia che prevalgono sui nostri, in altri momenti quelli della nostra squadra del cuore, in altri ancora quelli della nostra nazione, etc. etc. Inoltre, quando ci identifichiamo con un particolare gruppo sociale, tendiamo a descriverci con i tratti caratterizzanti quel gruppo (es. sono uno sportivo, quindi una persona dinamica, disciplinata, salutista, etc.) e questo è uno dei motivi per cui l’appartenenza a queste entità sociali, è un elemento consustanziale del nostro essere uomini o donne all’interno di una data cornice culturale. I gruppi ci aiutano, in sostanza, a chiarirci che cosa siamo, quali sono i nostri ruoli, gli scopi, le conoscenze utili, gli atteggiamenti e le norme da adottare. Tutti elementi identitari che ci permettono di informarci e distinguerci “dagli” o renderci riconoscibili “agli” altri, il tutto ovviamente sempre all’interno della società in cui viviamo. I gruppi, dunque, non sono solo aggregati di persone. Ma insiemi di persone che condividono conoscenze, pratiche, norme, ruoli, valori, ideali, scopi. Questa identità sociale condivisa, quando intimamente introiettata nei membri, condiziona profondamente come le persone pensano, parlano, agiscono. Ad esempio, l’adesione a un gruppo politico piuttosto che a un gruppo religioso comporta interiorizzare dei valori, ideali, scopi che guideranno la mia visione del mondo, l’individuazione delle soluzioni più adatte ai suoi problemi, le norme che disciplinano le mie relazioni sociali, la mia concezione di giustizia, libertà, etc. etc.
Partendo dall’insieme di questi presupposti, cerchiamo ora di rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti. Ci eravamo chiesti cosa è che determina in una persona, la capacità di influenzare i membri di un gruppo al punto tale che questi ne sposano unanimemente la visione e volontariamente, si fanno oggetto e strumento della sua azione.
Ora, se l’appartenenza a un gruppo è così rilevante per la definizione del sé della persona, il grado di influenza che ciascun membro del gruppo eserciterà sugli altri, dipenderà proprio dal grado di fedeltà della persona a quell’identità sociale condivisa. In poche parole, più un membro è in grado di incarnare i valori, i simboli, gli scopi del suo gruppo, più questo sarà influente sui pensieri e sui comportamenti di tutti gli altri membri e diverrà per ognuno di questi, esemplare.
La persona assurge al ruolo di prototipo del gruppo, quello che al meglio ne rappresenta i valori, quello che più degli altri lotta per raggiungerne gli scopi, quello che al meglio ne tutela gli interessi e quindi nel fare questo, agli occhi degli altri, diventa la persona più indicata per guidarlo, quello da rispettare, ascoltare, seguire, imitare e quello su cui, come confermato da molti studi, si polarizza l’attenzione del gruppo. È questo meccanismo che fa sì che i membri si conformino e offrano spontaneamente il loro consenso. Da ciò deriva il suo status, il suo prestigio e soprattutto il suo carisma, che non è una caratteristica della persona quanto una conseguenza di questo suo essere il prototipo, il miglior rappresentate di quell’identità condivisa.
Alcune riflessioni sul tema della prototipicità del leader. Questa è più rilevante rispetto allo stereotipo sulla leadership che vedevamo nella teoria precedente, inoltre può ritrovarsi distribuita su più membri dello stesso gruppo, che magari si fanno interpreti in egual misura di quegli stessi valori. Tuttavia, quello che in un dato momento risulta, agli occhi degli altri, la persona maggiormente rappresentativa, ne diventa il leader. Anche se tutti i membri più prototipici hanno il potere di influenzare, comportamenti, pensieri, azioni degli altri.
A questo proposito ci sono delle considerazioni che debbono essere prese in considerazione per evitare di cadere in confusione.
Questo spostarci sull’identità sociale condivisa dei gruppi, non significa che le caratteristiche personali del leader che elencavamo poc’anzi siano irrilevanti. La sua credibilità, sincerità, la coerenza, la sua forza d’animo, l’empatia, la lungimiranza e via dicendo, svolgono un ruolo importantissimo ma nella misura in cui permettono a questa persona di incarnare al meglio gli scopi e i valori del suo gruppo. Parimenti dicasi per la specificità dei contesti sociali dove il gruppo esplica la sua vita. Quando difatti questi cambiano e questo può succedere per svariati motivi, variano o si ristrutturano le priorità, gli obiettivi, valori, ideali del gruppo stesso e con essi, le caratteristiche prototipiche definitorie del leader. Se il leader precedente, non è capace di cogliere quel cambiamento è destinato ad essere soppiantato da un’altra persona che meglio di lui, ne saprà interpretare lo spirito. Motivo per il quale, un leader che va bene per una fase dello sviluppo del gruppo, non è detto che possa andare bene per un’altra di là dai suoi meriti. Come spesso la storia ha testimoniato, ileader adatti a guidare i gruppi rivoluzionari, sono stati soppiantati quando quegli stessi gruppi, consolidato il loro potere, si sono cimentati con il governo dei Paesi e si sono trasformati in organizzazioni di sistema.
Infine, non dobbiamo fare l’errore di credere che tutto questo processo si svolga in modo passivo e che il leader lo subisca. Al contrario se, come oramai dimostrato abbondantemente, il suo potere di influenza dipende dal grado di aderenza a un’identità condivisa e ogni leadership deve il suo successo e potere al consenso che ne ricava, il leader può, operando a livello identitario, ristrutturare quel materiale per guidare questi processi e indirizzare, le energie del gruppo così da trasformarle nel suo strumento d’azione. In realtà, non solo egli può farlo, ma ne ha addirittura l’obbligo. Anzi, potremmo concludere dicendo che buona parte del percorso che porta alla costruzione e al consolidamento della propria leadership, si realizza tutto lì. E non è, come molti scioccamente pensano, solo un fatto di comunicazione o peggio ancora, di persuasione. Operare a livello identitario implica certamente comprendere cosa significhi comunicare e come utilizzare questo potentissimo strumento per questo fine. Ma soprattutto significa divenire il “paladino”[1] di questa identità, il suo “imprenditore” [2] e il suo “realizzatore” [3], vale a dire patrocinarla, proteggerla, modellarla e agire concretamente affinché il gruppo raggiunga i propri scopi. Anche allo stremo se serve, poiché molti studi hanno dimostrato che un leader è tanto più potente quanto più dimostra di essere votato alla causa, spesso pagando un caro prezzo in termini di sacrifici personali.
Nei prossimi articoli vedremo come una persona può realizzare tutto questo nella pratica. Nel frattempo però abbiamo fissato il primo punto fermo. La leadership è un prodotto dei gruppi e per comprendere cosa significhi diventare il leader di un gruppo specifico, bisogna partire proprio dalle qualità di quest’ultimo e su quelle fondamenta, costruire la visione collegiale che dovrà guidarlo al raggiungimento dei suoi scopi. Capiremo nei prossimi articoli come svolgere questa delicatissima operazione attraverso la “comunicazione”, nel frattempo si delinea all’orizzonte la direzione verso la quale ogni aspirante leader deve incamminarsi. Quella del “noi” ad ogni costo, dove il suo potere, paradossalmente, cresce in proporzione alla sua sempre maggiore capacità di liberarsi del proprio “io”.
Note:
[1] Haslam A.S., Reicher S.D., Platow M.J. (2013). Psicologia del leader - Identità, influenza e potere. Il Mulino.
[2] Ibidem;
[3] Ibidem;
Letture consigliate:
Harkins P., Swift P. (2013). In cerca di leadership. Che cosa ha reso grandi i grandi leader. FrancoAngeli.
Haslam A. S. (2016). Psicologia delle organizzazioni. APOGEO.
Mandolini R. (2021). Project Management. Fondamenti psicosociologici di leadership e comunicazione nella gestione dei gruppi di lavoro. Nuove risposte a vecchi quesiti. Youcanprint