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  • Romina Mandolini

Essere leader di se stessi

Aggiornamento: 30 dic 2021


Non si possono guidare gli altri se non sappiamo in primis controllare noi stessi. Se non siamo capaci di agire ma solo di re-agire. Se non siamo capaci di affrontare nel giusto modo le innumerevoli sfide che questo compito porta con sé. La costruzione di una vera leadership poggia su una promessa implicita che la persona che ricoprirà quel ruolo, fa al suo gruppo: diventare quello che agli altri proclama di essere.


Una leader donna felice di essere leader di se stessa

Per l’home page di questo sito è stata scelta la foto di una persona che esulta, per aver conquistato la vetta di una montagna si presume, alla fine di un viaggio. L’immagine, nel suo significato implicito, ci racconta anche delle innumerevoli difficoltà che il protagonista ha affrontato per essere lì. In realtà, guardandola, è soprattutto a queste che viene da pensare. Crepacci, sentieri inesplorati, le diverse caratteristiche dei terreni, condizioni meteo avverse, il rischio insito nell’attraversamento di pendii e l’incognita di slavine o valanghe. Il pericolo di scivolare, le difficoltà di orientamento in caso di nebbia, i rischi di assideramento o congelamento, etc. etc.. Insieme, ovviamente, ai propri limiti psicofisici che inevitabilmente si presentano ogni volta che ci misuriamo con noi stessi: sfiducia in se stessi, scoramento, stanchezza, angoscia, sconforto, dubbi, paura, terrore, ansia, stress.


Il nostro protagonista ha effettivamente, tutti i motivi per gioire.


Tuttavia, se parlando di leadership non abbiamo fatto altro che smantellare lo stereotipo dell’individuo solo al comando, perché abbiamo scelto per rappresentare questo sito l’immagine di un individuo che da solo, primeggia incontrastato sulla vetta?


La risposta è meno banale di quello che a un primo sguardo potrebbe sembrare ed ha a che fare con il rapporto che viene a instaurarsi tra l’identità personale del presunto leader e la funzione (quindi l’identità sociale) che questo va a incarnare occupando quel ruolo. Essere un leader difatti, comporta il sacrificio della prima a vantaggio della seconda, il quale lo obbliga a una coerenza, una fedeltà adamantina ai valori, alla causa e al compito che lo aspetta. Ciò comporta, da un lato, la rinuncia al proprio tornaconto (vantaggi, profitto personale) e ai propri personalismi (quello che si preferisce o che è per noi più comodo, gratificante) e dall’altro, la disponibilità ad accettarne su se stessi il prezzo (es. la solitudine, la responsabilità di certe scelte e una significativa dose di sacrifici. Ricordiamo che molti leader hanno affrontato perfino la prigione).


Inoltre l’attitudine a prefigurarsi i possibili sviluppi di una situazione e la facoltà di prevenirne o sfruttarne le conseguenze, il saper coordinare varie operazioni in vista dello scopo finale implicano di essere capaci ad agire e non a re-agire alle situazioni. Il che li costringe, di nuovo, a mettere da parte l’egoicità e il suo primeggiare, insieme allo infruttuoso desiderio di vendetta o ritorsione.


La visione che guida e ispira tutto l’agire di un leader deve essere all’insegna di ciò che è necessario compiere per adempiere la causa del gruppo che egli rappresenta, niente di più e niente di meno, ma questo comporta un lavoro enorme in termini di controllo ed equilibrio della persona. La conquista dell’equanimità, cioè il superamento di antipatie, simpatie, favoritismi gli permettono di confrontarsi con l’eterogeneità del materiale umano che forma il gruppo, senza neutralizzarne il valore. È la paritarietà tra i membri del gruppo, in termini di uguaglianza di diritti, doveri e opportunità, che gli garantiscono un ambiente creativo dove i diversi punti di vista, esperienze, conoscenze invece che confliggere, producono innovazione.


Parimenti verso se stesso, un leader non può prendere decisioni, emettere giudizi sulla scia dell’umore con il quale si sveglia la mattina o sulle sollecitazioni cui è sottoposto affrontando le difficoltà che si presentano. A guidare un gruppo quando i risultati arrivano da sé sono capaci tutti, altra cosa è affrontare avversità, ostilità, diffidenze, insuccessi senza perdersi d’animo e senza perdere di vista la meta.


Quindi è evidente che pur vestendo abiti che il gruppo confeziona per lui (l’identità sociale con i suoi valori, ideali, scopi, pratiche, etc.) per indossarli deve affrontare un percorso di maturazione e crescita interiore, di cui pochi saranno testimoni, in cui “è” e “sarà” sempre da solo.


Nondimeno, egli è solo anche per un altro motivo cui abbiamo già accennato. É al centro di due forze che premono costantemente su di lui e di cui lui dovrebbe, sotto certi punti di vista, essere un catalizzatore. Da un lato deve rendere conto dei risultati del gruppo all’organizzazione all’interno della quale questo opera. Dall’altro ai membri del gruppo stesso che si aspettano da lui, come migliore rappresentante di quel “noi”, che ne difenda e promuova gli interessi anche verso l’organizzazione stessa.


A fronte di tutto quello che abbiamo detto, egli dovrà:


1) Comprendere che cosa è la leadership per poi realizzarla e consolidarla, partendo proprio dal gruppo e dall’identità sociale condivisa. A questo riguardo consigliamo di leggere i nostri seguenti articoli poiché possono aiutarlo, quantomeno, a inquadrare il tema dal giusto punto di vista:

a) Essere leader: rivoluzionare l'approccio

b) Leadership: uno, nessuno e centomila

c) La costruzione di una leadership


2) Sviluppare abilità e capacità di comunicatore poiché è lo strumento attraverso il quale rafforzare relazioni e operare in modo proattivo a livello identitario, plasmando quella materia. Su quest’argomento alquanto interessante ma altrettanto vasto, mentre stiamo scrivendo quest’articolo, abbiamo scritto due articoli che sono i fondamentali dai quali iniziare a parlarne:

a) La comunicazione e i suoi fondamenti

b) Comunicare “cosa” e “come”


3) Individuare degli strumenti che gli permettano, come dicevamo poc’anzi, innanzitutto di conoscere come funzioniamo per, successivamente, individuare degli strumenti che gli permettano di lavorare su se stesso in modo mirato, consapevole sulla propria sfera psicofisica. Così da stabilire un equilibrio interno che lo aiuti a centrarsi mentre tutto intorno a lui resta agitato, che lo rifornisca di forze ed energie anche se i contesti restano molto competitivi e stressanti. Infine gli garantisca una disciplina mentale dalla quale ricavare concentrazione, energia mentale, un certo controllo riguardo i propri pensieri e le proprie emozioni. Ed è il motivo per cui, in un sito come questo, esiste una categoria chiamata “mindfulness” dal significato più ampio rispetto all’ambito solito con cui questa parola viene utilizzata.


Accenneremo ai meccanismi cognitivi che ci muovono, quelli grazie ai quali ci formiamo giudizi (aspetto che avrà importanti ricadute a livello di comunicazione) affrontandone le potenzialità e soprattutto i limiti (anche per capire come trasformarli in forza). Parallelamente, attingendo a piene mani da una antichissima disciplina, lo Yoga, da cui l’Occidente ha copiato male e senza mai professarlo, tutta un’infinita di metodologie, tecniche, conoscenze che ha poi impacchettato ogni volta con un nome e un packaging diverso a seconda della convenienza o delle mode del momento (tra le ultime c’è proprio questa chiamata “mindfulness”). Isoleremo alcune semplici tecniche meditative, respiratorie, di concentrazione, insieme ad alcune posture fisiche. La cui pratica può dimostrarsi un grande aiuto per lavorare sul proprio equilibrio psicofisico e conquistare, non solo, una capacità maggiore di fare fronte allo stress ma una centralità e forza mentale da garantirci una stabilità interiore, anche quanto tutto intorno a noi è agitato o in piena tempesta. Quel necessario grado di distacco che ci consentirà di esercitare l’equanimità anche verso noi stessi (le nostre emozioni, passioni, personalismi, etc.), illuminando così pensieri, parole e azioni.


Sono questi i tre pilastri che permettono alla persona di tentare di conquistare quella “cima” collocata nella sua interiorità.


Del resto non si può esercitare una leadership se non se ne sono comprese le dinamiche profonde e soprattutto se non si è compreso quale ruolo fondamentale svolga il gruppo al riguardo. Parimenti non la si può esercitare a dovere, se non si è capito cosa davvero significhi comunicare, specie visto l’insistere, in alcuni, sul continuare ad alimentare un fraintendimento erroneo e pericoloso che si ostina con il ridurre la comunicazione di un leader al tema della persuasione. Come se l’una equivalesse all’altra.


Dovrebbe generare più di un sospetto l’immagine sulla quale si continua a perseverare in alcuni ambienti professionali, per la quale il leader non sarebbe altro che l’uomo solo al comando (e sottolineiamo non a caso “uomo”), al pari di una certa deità scesa da non si sa bene quale dimensione, che realizza il suo potere proprio nella misura in cui, attraverso certe strategie comunicative, riesce a imporre agli altri se stesso (punti di vista, valori, regole, etc.). Senza tra l’altro avere mai il coraggio di dire apertamente che la persuasione cui in questo ambito si fa continuo riferimento, non è ciò che con questo termine si suòle realmente indicare, vale a dire il suggerire un cambio di atteggiamento nelle persone, mostrando la validità di un punto di vista alternativo ma lasciando tuttavia alla persona la piena libertà di scegliere quello che più gli aggrada.


Quello che al contrario, più sottilmente si sobilla è l’interesse e la possibilità di piegare la volontà degli altri, riducendola ai propri fini. La pericolosità di queste operazioni non è, e su questo punto dobbiamo essere chiari, che poi l’autore soddisfi o meno le sue promesse nell’elargizione di segreti o tecniche manipolatorie (molti di questi manuali servono solo per arricchire le tasche di chi scrive) quanto piuttosto che si continui ad alimentare, coltivare questo modello e a fomentare aspirazioni e aspettativa nelle persone in tal senso. Mascherandole, in associazione, all’ideale di una leadership potente che invece nasce e si esplica verso tutt’altra direzione.


Bisogna avere il coraggio di dire apertamente che queste aspirazioni contemplano, a gradi diversi, l’inganno e l’abuso psicologico. Proliferano su un terreno che è quello della mascherata violenza, dell’opportunismo, del consenso e della conformità. Si tratta del “sogno” o dell’“incubo” che non a caso, molti individui coltivano quando approcciano la materia e che spesso si è materializzato nei tanti soggetti patologici, che hanno caratterizzato e caratterizzano tutt’oggi la storia conosciuta e/o nascosta dei popoli, della politica, della società civile, del management, delle organizzazioni tutte. Poco importa poi se la loro influenza si esplica su un numero ristretto di individui oppure su una nazione intera, l’aspirazione è la medesima come è paritetica la malattia da cui sono afflitti.


Riguardo invece al terzo punto, quando si è capito cosa davvero la “leadership è” e il ruolo che la comunicazione svolge in quella costruzione, a quel punto per sostenerne il “peso” è necessario strutturarsi. Lavorare su se stessi per raggiungere gli obiettivi che abbiamo illustrato e che approfondiremo, passo dopo passo, nei prossimi articoli di questa categoria.

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