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  • Romina Mandolini

Comunicazione “non verbale” e leadership: proviamo a fare chiarezza

Aggiornamento: 30 apr 2022

Comprendere cosa condiziona la comunicazione non verbale di un leader, ci aiuta ad evitare errori che potrebbero rivelarsi fatali per la sua influenza.


Comunicazione non verbale di alcune persone

Uno psicologo sta interrogando un pregiudicato in un comando di polizia; quest’ultimo fa parte di una gang che ha piazzato dell’esplosivo in una zona della città. Il tempo corre ed è l’ultima occasione per sventare la tragedia. Lo psicologo conduce l’interrogatorio in maniera insolita; gli rivolge domande apparentemente fuori contesto e a volte, perfino contradditorie. Per di più, mentre a voce alta elenca i possibili luoghi dell’attentato, non sembra molto interessato alle risposte del malvivente; è concentrato invece sulle smorfie della bocca, la corrugazione delle sopracciglia, la posizione degli occhi. Dopo qualche minuto ha avuto le conferme che cercava, si alza in piedi e fornisce ai poliziotti le indicazioni sull’area, dove è stato collocato l’esplosivo.


La scena appena descritta è tratta da una serie tv statunitense, “Lie to Me”, dove il personaggio principale – interpretato dall’attore Tim Roth e liberamente ispirato alla figura del Dr. Paul Ekman (lo studioso che con i suoi lavori ha approfondito la semiosi delle espressioni facciali e dunque il valore comunicativo che rivestono le emozioni) – è uno psicologo esperto di comunicazione non verbale. Ogni episodio è organizzato attorno all’espressività di questo codice; il che ha reso questa serie tv attraente per tutti quelli interessati alla materia e interessante, per chi non ne immaginava il fascino. Anche se, ricordiamolo, si tratta sempre di una finzione narrativa con tutte le sue semplificazioni, forzature, invenzioni, errori; lo studio reale dell’argomento è insomma, tutt’altra cosa.


A tal riguardo, esistono molti studi dedicati alla comunicazione non verbale, soprattutto su leader politici, militari, religiosi, manager di rilievo, etc... In questi lavori [1], il più delle volte si cerca di isolarne i segni persuasivi, i tratti carismatici, le espressioni di potere, di dominanza (o di discredito verso gli avversari, magari analizzando i dibattiti tra avversari politici). Del resto, sotto l’etichetta “comunicazione non verbale” sono raccolti innumerevoli codici e questi hanno a che fare con tutto ciò che ci riguarda e rappresenta. Da come acconciamo i capelli, alla postura che assumiamo mentre camminiamo, per non parlare delle espressioni del viso, delle mani con cui gesticoliamo, delle gambe quando ci sediamo e del modo in cui articoliamo la nostra voce. Sul piano, diciamo, più prettamente culturale si iscrivono, inoltre, ulteriori elementi che ugualmente “raccontano” e forniscono agli altri, informazioni preziose su chi noi siamo (gli abiti sono un esempio, gli oggetti che indossiamo un’altro). Quando però tutto questo lo si accosta al tema della leadership, dobbiamo ricordarci di un aspetto, già rilevante di per sé nella comunicazione, che riguarda il frame o la cornice di senso all’interno della quale quella leadership si colloca, vale a dire il contesto identitario – costituito dai valori, ideologie, scopi, partiche, etc. – nel quale il gruppo (di quel leader) si riconosce e identifica. Questo, difatti, è l’elemento che guida tutta la comunicazione dei grandi leader e ne condiziona la significazione, l’influenza, l’efficacia; inoltre, visto che la comunicazione non verbale è, come noto, gravata da una buona dose di involontarietà, essa è il terreno su cui molte leadership si arenano. Anche in virtù del suo enorme potere comunicativo, superiore di gran lunga alle parole. Difatti si ritiene, non a caso e non a torto, che il successo di una carriera politica dipenda anche da specifiche abilità maturate proprio in questo campo.


In che senso il materiale identitario è collegato alla leadership? Per chi interessato, è bene sapere che a questo argomento abbiamo dedicato ben tre articoli, l’uno complementare all’altro, di cui consigliamo la lettura in quanto i temi trattati allora, appaiono cruciali per quanto diremo oggi (qui verranno ripresi senza la possibilità di approfondirli, per gli ovvi motivi di tempo e spazio). Li elenchiamo nell’ordine in cui andrebbero letti, vale a dire il primo, il secondo, il terzo.


Per tornare a noi, prima di rispondere alla domanda, dobbiamo quantomeno riassumere i livelli attraverso i quali “comunichiamo” tutto ciò che ci caratterizza:


1) C’è un piano espressivo prettamente “verbale”, il quale si esplica attraverso le parole e la scrittura di cui ci serviamo. Il codice che sottostà al linguaggio che utilizziamo; con i suoi segni, i suoni e le regole formali per la composizione delle parole e delle frasi. Insieme alle aree semantiche (i significati associati in maniera arbitraria) che le nostre parole vanno a ricoprire.


2) Un secondo piano è quello “paraverbale”; si affianca al primo e riguarda il modo in cui “diciamo” queste parole; ad esempio il tono di voce che utilizziamo e di cui fanno parte il ritmo (calmo, incessante, etc.), il volume (alto, basso), il timbro (ciò che distingue un suono da un altro) e questo sia mentre parliamo, scriviamo o leggiamo qualcosa.


3) Infine, un terzo piano che riguarda la dimensione “non verbale”, la quale può corredare o meno quello che a parole stiamo esprimendo, poiché su questo livello possiamo comunicare benissimo senza bisogno di parlare; tramite la mimica facciale o per l’appunto, grazie ai gesti o a quegli elementi “culturali” che, dicevamo, sono i simboli che caratterizzano la cultura, la comunità cui apparteniamo e che, in quanto tali, ci identificano (es. tatuaggi, tolettatura, maquillage, pittura delle unghie, orecchini, abiti, oggetti di cui ci serviamo – dalla stilografica del manager, alla corona che indossa una regina – etc.). La comunicazione non verbale può rafforzare il significato di quello di cui stiamo parlando (pensiamo ai gesti), può aiutarci a chiarirlo oppure può addirittura contraddirlo.


Come esseri umani, ci esprimiamo attraverso diverse modalità (i fondamenti della comunicazione sono stati affrontati in questo precedente nostro articolo e in questo successivo). Siamo, come ricordano le psicologhe I. Poggi e F. D’Errico, dei comunicatori multimodali[2] e molti autori concordano sul fatto che oltre l’80% dei significati che noi comunichiamo, viene derivato dai livelli “paraverbali” e “non verbali”. Sui quali pesa, come anticipavamo, il tema dell’automaticità poiché la comunicazione non verbale, fatta eccezione per quelli che per mestiere sono obbligati a curarne ogni aspetto (ma anche lì, spesso, ciò vale per un tempo limitato), ha la particolarità di svolgersi in maniera istintiva, inconsapevole; aspetto su cui, non a caso, la stessa serie tv cui accennavamo in apertura, insiste per la risoluzione dei diversi casi.


Detto ciò, dobbiamo ora riprendere il tema dell’identità sociale.


Ognuno di noi si rappresenta agli altri e auto-rappresenta a se stesso, attraverso varie identità che rispondono, se così possiamo esprimerci, a gradi diversi di focalizzazione. La nostra identità personale, ad esempio, è caratterizzata da tutto ciò che ci contraddistingue, diciamo, in termini biologici e psicologici (sesso, carattere, temperamento, insieme alle nostre propensioni in termini di tipologia psicologica; ci sono individui più emotivi, altri più portati a intellettualizzare la realtà, altri ancora sono più istintivi etc., etc. [3]). A questa si affianca quella che chiamiamo identità sociale, la quale, come suggerito dalla parola stessa, ha a che fare con tutto ciò che ci identifica e contraddistingue all’interno di una data cultura (ruoli, status, ideologie, valori, formazione, professione, etc., etc.). Essa è molteplice, nel senso che ci serviamo di più identità a seconda dei diversi gruppi sociali con cui ci identifichiamo, prendendone a prestito valori, ideologie, scopi, etc... Cosicché, durante l’arco della giornata, lo stesso individuo (in famiglia) è un padre, (in ufficio) è un impiegato, (allo stadio) è il tifoso di quella squadra di calcio, (durante il suo tempo libero) è un appassionato di cinema, (in un luogo di culto) è praticante di una data religione, aderisce ad una visione politica, etc. etc. etc.. In questo senso, l’appartenenza ai gruppi e le rispettive identità che ne deriviamo, ci forniscono materiale per rispondere a una serie di domande importanti: chi e cosa siamo; quale è il nostro ruolo e scopo nel mondo; attraverso quali mezzi o strumenti è possibile raggiungerli. L’identità personale e le varie identità sociali, sono strettamente interdipendenti e coesistono influenzandosi reciprocamente.


Come abbondantemente dimostrato da due importantissime teorie psicosociali, la Teoria dell’identità sociale (Tajfel e Turner, 1979; 1986) e la Teoria dell’auto-categorizzazione (Turner 1985; Turner et al., 1987), quando ci identifichiamo in termini di identità sociale, siamo spontaneamente portati a mettere da parte i nostri interessi, obiettivi, valori personali per patrocinare quelli del gruppo con cui siamo identificati. Il “noi”, in poche parole, primeggia sull’“io” e in ambito organizzativo, molti studi [4] hanno dimostrato come la qualità dei fenomeni più rilevanti (leadership, commitment, empowerment, etc.) dipendano proprio dal grado in cui gli individui riescono a definire se stessi in termini di appartenenza. Venendo alla leadership, se un gruppo, nasce e si organizza intorno a dei valori, degli scopi, interessi, ideologie, pratiche, etc., la possibilità che un individuo, piuttosto che un altro, ne diventi il leader non dipende solo dalle qualità della singola persona (come molti credono), quanto dalla sua capacità di incarnare, meglio di altri, l’essenza di tutto quel materiale identitario. Gli scopi che il gruppo persegue, attraverso i valori in cui crede, insieme agli altri elementi identitari diverranno la misura sulla quale verrà giudicata la bontà di quella leadership. Cosicché la sua influenza, il suo carisma e dunque il suo potere, dipenderanno e cresceranno esponenzialmente, agli occhi degli altri membri del gruppo ovviamente, in funzione di quanto il presunto leader è in grado di dimostrare aderenza e coerenza d’intenti, verso tutto quel materiale: incarnandone meglio e più di altri, i valori; realizzandone gli scopi; promuovendone gli interessi, etc.. Egli, si dice in gergo tecnico, diviene il prototipo della categoria gruppo, quindi il suo elemento più rappresentativo e la comunicazione non verbale, si attesta come uno tra gli strumenti più importanti per corroborare, cioè rendere credibile, attendibile e avvalorare, ogni volta questa evidenza.


Facciamo degli esempi e anticipiamo da subito al lettore, che il nostro ragionamento fuoriesce da ogni giudizio morale, politico e qualsivoglia altra idea, opinione o valutazione sulle persone che prenderemo a riferimento. Poiché l’unico nostro interesse in questo contesto è riuscire a supportare il nostro ragionamento con esempi concreti, così da poterlo verificare e renderlo più chiaro per chi ci sta leggendo.


Iniziamo da Giorgio Armani, il famoso stilista italiano. Egli è il leader indiscusso di tutti coloro, uomini o donne, che si identificano in uno stile elegante, minimalista che si inscrive al di fuori dal tempo. L’unicità delle armonie geometriche dei tagli delle sue creazioni, la tavola cromatica dove primeggiano: nero, le sfumature di grigio, i beige, i blue e i rossi. Colori profondi, meditativi, intimisti che si concretizzano anche a livello materico, con una ricerca della perfezione che passa attraverso gli accessori che impreziosiscono le sue opere. Ebbene egli stesso incarna questa essenzialità elegante, vestendo la semplice t-shirt blue e il pantalone della stessa tinta con i quali si presenta, il più delle volte, in pubblico e grazie ai quali viene additato dai molti come icona intramontabile di stile.


Andiamo adesso a Steve Jobs e alla sua famosa mise, da lui stesso reclamizzata: nell’ordine dolcevita nera, jeans 501 Levis e scarpe New Balance. Anche qui siamo davanti a un’eleganza minimale ma è uno stile completamente diverso dal precedente, poiché c’è un richiamo forte alla praticità e funzionalità tipica di quei capi. Il jeans e le sneackers richiamano la facilità d’uso, la comodità, la semplicità, la maneggevolezza e l’utilità, tutti valori che la Apple ha incarnato nei suoi prodotti e di cui Steve Jobs con il suo stile, non ha fatto altro che comprovare. Del resto è stato lo stesso Jobs a spiegare al suo biografo, Walter Isaacson, che quella specie di divisa (anche qui c’era uno stilista, il giapponese Issey Miyake), rappresentava e identificava, in un qualche modo, la Apple stessa e le persone che vi lavoravano.


Veniamo ora a Sergio Marchionne – l’ex amministratore delegato di FIAT poi FCA – e al suo famoso maglione blue cui lo stesso non ha mai rinunciato, anche in situazioni ufficiali la cui ritualità richiedeva tutt’altro abbigliamento. Resta emblematica la sua presenza al debutto della Ferrari a Wall Street, nell’ottobre del 2015, in cui officiava a quel rito, incurante della “giacca e cravatta” richiesta e indossata puntualmente da tutti gli altri manager presenti. Questo stile minimalista, ha rimarcato la sua distanza dagli altri ed è stato un segno della sua concretezza. Il che si inscrive perfettamente con la filosofia di vita del personaggio che si dice fosse estremamente pragmatico, diretto, che guardasse alla sostanza di là da regole, convenzioni o formalità. Un maglione dunque, parimenti a quello che abbiamo visto nei due casi precedenti, diviene un simbolo di forte coerenza con un modo di essere e di intendere la vita. Coraggio o spregiudicatezza (a seconda dei pareri) che lo ha reso, agli occhi di molti, il prototipo del manager post moderno – con annessi pregi e difetti – al punto da essere preso a riferimento (come gli altri due precedenti) e imitato, da molti altri professionisti.


Ora vediamo un esempio contrario dove fu protagonista sempre un maglione. Nel 2011, l’allora Ministro della Difesa italiana, Ignazio la Russa, in visita ufficiale al comando regionale di ISAF competente nella parte occidentale dell’Afghanistan (Regional Command West) si presentò vestito con una camicia e, per l’appunto, un maglione. Al riguardo l’associazione nazionale ufficiali dell’Aeronautica militare, indirizzò al Ministro una lettera molto dura rimproverandolo di aver indossato abiti troppo casual: «La sua camicia azzurrina sportivamente slacciata, ed il suo scuro maglioncino a “V” (oltre ai pantaloni troppo abbondantemente ricadenti sui talloni), certamente appropriati per presenziare ad una cerimonia di scambio di gagliardetti fra bocciofile, non hanno conferito, all’evento in fieri, quell’importanza ch’esso si proponeva di raffigurare»[5]. Era accaduto qualcosa che nella storia della leadership ha diversi precedenti, l’abbigliamento era stato giudicato da alcuni, giusto o sbagliato non ci interessa, inopportuno per un contesto militare (dove, come noto, la formalità è un valore) tanto da minare, per i promotori della missiva, perfino la solennità dell’evento. Si trattò di un episodio che si concluse con una polemica tutta a mezzo stampa, ma ci sono esempi di leadership politiche che per motivi similari, hanno visto tramontare inesorabilmente la propria ascesa. Un esempio significativo fu quello di Micheal Foot, l’ex leader del partito laburista britannico, raccontato dai tre psicologi Haslam, Reicher, Platow nel loro libro “Psicologia del leader” (Il Mulino, 2013; p.225). Anche in questo caso si trattava di presenziare a una cerimonia ufficiale per i caduti di guerra britannici; il politico si presentò vestito con un giaccone che fu giudicato inappropriato dalla stampa avversaria che, come nel caso precedente, fu letto come una mancanza di rispetto verso la solennità dell’evento. Questa polemica però, ripresa e amplificata dai media e dagli avversari, gli costò la bontà della sua carriera politica.


Proviamo adesso a trarre da tutto questo, qualche conclusione.


Nell’ambito della leadership, in particolar modo alla luce dell’identità sociale, gioca un ruolo prioritario la capacità che il leader ha di rappresentare la sua appartenenza al suo gruppo. Questo, tuttavia, non significa che esso debba omologarsi e non possa svolgere questa operazione in maniera creativa e distintiva (come abbiamo visto fare negli esempi precedenti), non si tratta difatti di rincorrere uno stereotipo (che è un altro errore che spesso i leader compiono), ma queste differenze non possono andare a compromettere i valori o gli interessi del gruppo di appartenenza (poiché sempre di prototipo stiamo parlando). Gli aspetti distintivi dei primi tre leader che abbiamo passato in rassegna poco fa, rafforzavano quell’identità non se ne distanziavano. Cosicché un leader per essere “comunicativamente” efficace non deve “fare” cose che lo allontanano dalle persone che rappresenta, al contrario deve mettere in risalto ciò che ha in comune con loro anche se può fare questo, in maniera inusuale e distintiva. Dobbiamo ricordarci che la regola aurea in questo ambito è che i follower, debbono sempre riconoscersi in esso, devono sempre poter dire di lui è “uno di noi”, quello che meglio degli altri incarna i “nostri valori”. Una assimilazione che funziona in entrambi i sensi: lui come “uno di noi” e, sempre attraverso di lui, “noi differenti da tutti gli altri”. Poiché è dal suo grado di assimilazione che deriva il suo carisma, la sua influenza e il suo potere.


E qui sta il centro di tutto il discorso. Un leader deve sapersi rappresentare come prototipico, ancora prima di essere considerato tale[6] e questa è una operazione che si deve perorare di giorno in giorno senza vivere l’illusione di credere che ci sia un momento in cui essa possa considerarsi conclusa. Non fosse altro perché ci sono altrettanti sfidanti leader che puntualmente, si proclamano loro stessi, come i più indicati.


Concorre a questa costruzione non solo quello che si dice, ma come si gesticola, come ci si veste, i toni che si usano e soprattutto, l’insieme di tutti questi elementi quando si combinano assieme. Quello che stiamo suggerendo è che non c’è un gesto, uno sguardo che in assoluto assicuri il successo in questo campo, ma l’insieme di quello che si rappresenta.


Prendiamo l’esempio di Benito Mussolini. Scrivono le psicologhe I. Poggi, F. D’Errico:


Mussolini fa un uso retorico di vari aspetti della voce: pause, tempo, articolazione, accenti. Innanzitutto fa molte pause retoriche. Se alcune pause ci servono per respirare o per prendere tempo nel cercare le parole, quelle del duce hanno sempre uno scopo comunicativo (…): creare suspense, aspettativa, sorpresa, o evocare l’idea di importanza e solennità. (…) Inoltre, Mussolini fa spesso uso dell’iperarticolazione: parla lento e scandisce le parole; un modo di parlare “orientato all’ascoltatore” (…), a cui l’allungamento della durata delle sillabe permette di capire più facilmente. (…) In certi casi, però, la lentezze dell’eloquio di Mussolini non hanno uno scopo di chiarezza o di democrazia comunicativa, piuttosto assume una sfumatura di MINACCIA: se ti do il tempo di capire bene il mio messaggio, vuol dire che la mia richiesta è perentoria e non hai scuse per fraintenderla o eluderla.”[7]


Le movenze esagerate, gigionesche, da guitto di Mussolini sono impresse nella nostra memoria visiva (…) mani sui fianchi, il busto eretto, il mento sollevato (…). Mussolini si mostra a torso nudo non solo nella battaglia del grano, ma anche nelle evoluzioni sulla neve; attraverso la propaganda dell’Istituto Luce esibisce la sua prestanza fisica di sciatore e cavallerizzo, la sua perizia di trebbiatore…[8]. “


Non solo, ecco l’analisi di un piccolo stralcio di un discorso del duce. Rimandiamo l’analisi integrale del testo al libro citato in calce:


Mussolini dice “Io sono il vostro capo!” (…): questo segnale contiene un ingrediente di dominanza, in particolare di imperiosità (…), che implica sentirsi superiore e in diritto di comandare sugli altri. Lo stesso ingrediente è portato anche dalle altre modalità: la prosodia, con l’accento sulla sillaba tonica “ca” di “càpo”, dando enfasi attribuisce importanza ed energia al messaggio; la testa eretta con il mento in su esprime orgoglio e superiorità; il gesto della mano destra a coppa che batte energicamente (…) [il gesto cui si riferiscono le due psicologhe, è la mano destra a coppa, palmo in su che batte sul balcone e rimbalza; Nda su Cfr, p. 120 Tab. 6.1] segnalando con impazienza l’indiscutibilità di quanto detto porta un ingrediente carismatico di categoricità (…). Imperiosità, energia aggressiva, superiorità e categoricità, tutti sussunti alla dominanza, contribuiscono tutti a un tipo di carisma Autoritario-Minaccioso (…)”. [9]


Egli dunque, restando ancorato al materiale identitario del movimento fascista, è impegnato, sempre attraverso l’uso della comunicazione non verbale, in un’operazione di continua affermazione, valorizzazione e rafforzamento della sua immagine di “capo” e principale interprete di quei stessi valori.


Tutto questo, e ci avviamo alle conclusioni, ci permette di testimoniare il legame indissolubile che esiste tra l’identità del gruppo con la sua realtà, la sua rappresentatività e la leadership. Questo ovviamente non significa che questa raffigurazione basti, poiché è indubbio il fatto che ogni leader sia chiamato prima o poi a passare dalle “parole ai fatti” e quindi a realizzare gli scopi, per cui quel gruppo è nato. Tuttavia è indubbio che quando questa operazione di costruzione è sincera, diviene il catalizzatore che esercita un influsso determinante sul successo di quella leadership, dove però già, sia chiaro, debbono esistere le necessarie premesse.


Concludiamo l’articolo con la “Scala di comunicazione non verbale” presentata dallo psichiatra Vincenzo Mastronardi nel suo “Le strategie della comunicazione umana” (FrancoAngeli, 2002), che letta dall’alto verso il basso, ci fornisce i “caratteri generali permanenti, distintivi” (Cfr, pag. 159) che inviamo o ci vengono inviati, quando ci presentiamo davanti a una persona. A scendere invece troviamo i suoi “segni comunicativi logici” (Cfr, pag. 160), che la persona codifica in maniera cosciente e intenzionale, fino ai “segni analogici” (Ibidem) che al contrario sono innati o involontari[10]:


1) Presentazione: Aspetto (tolettatura, denti, capelli, maquillage, pittura di alcune parti del corpo come unghie o tatuaggi, forma fisica, etc.), andatura, abbigliamento (compresi quegli oggetti ornamentali o simboli culturali che ci identificano es. le mostrine per un militare, la tiara papale, la giacca e cravatta dell’uomo d’affari, etc.) , comportamento spaziale (es. la distanza/vicinanza che manteniamo dagli altri), postura (ad esempio braccia, gambe, tronco,), contatto fisico (movimenti come carezze, abbracci, colpi, et.)


2) Segni logici: Emblemi (es. salutare con la mano, fare il gesto dell’“ok”, battere i pugni sul tavolo, etc.); Segni illustratori, vale a dire tutti quei gesti che compiamo per illustrare quanto era grande, alto, piccolo qualcosa o i movimenti deittici per indicare un oggetto usando ad esempio l’indice.


3) Segni analogici: Vi rientrano tutte le espressioni del viso e le manifestazioni delle emozioni; i gesti adattatori (Cfr, pag. 184), appresi nell’infanzia che poi vengono riproposti dall’individuo adulto (es. grattarsi la testa, tenersi la testa con le mani, bagnarsi le labbra con la lingua, etc.). Questi gesti sono distinguibili in tre categorie: auto-adattatori, alter adattatori, oggetto-adattatori;


4) Segni Vocali non verbali: Segni prosodici (svolgono una funzione comunicativa, es. il tono della voce, il timbro e il ritmo); segni paralingiustici che al contrario non sono sempre connessi al discorso (es. una caratteristica della voce legata a fattori anatomici) oppure che hanno a che fare con lo stato emotivo del parlante (esempio ansia, paura); rumori emozionali (pianto, mugolii, tossire per nervosismo, etc.);


Sono tutti questi segni (propri di codici diversi) che presi in combinazione tra di loro, parlano di noi agli altri. Gli stessi con cui ogni leader, piccolo o grande che sia il suo gruppo, deve studiare, conoscere e utilizzare in maniera sapiente per realizzare quella che in fatto di leadership è la vera impresa: permettere alle persone di farsi strumento della sua azione. Esempi eclatanti hanno dimostrato che persone apparentemente poco abili in termini di comunicazione verbale, pensiamo ai famosi “bushismi” vale a dire agli innumerevoli errori di sintassi, logica e grammatica per cui l’ex Presidente statunitense George Bush è diventato famoso, possono divenire irrilevanti per il fascino di quella leadership purché il leader si autorappresenti in coerenza con i valori che identificano il suo gruppo. Avendolo citato, il caso dell’ex Presidente Bush sotto questo punto di vista parla chiaro. Erano forti, nel suo elettorato, le immagini che lo ritraevano vestito di quelli che erano i simboli americani per eccellenza: gli stivali e il cappello da cow-boy, le tipiche camice, il jeans, il suo amore per la birra americana Budweiser, le bistecche e le sue giacche di pelle[11]. Motivo per il quale, essendo “uno di loro”, non solo gli sono stati perdonati gli strafalcioni ma, al contrario, furono utilizzati come rinforzo della bontà della sua leadership a conferma del fatto che si trattasse di una persona autentica, verace, non costruita come lo erano invece gli altri candidati.


Il che di nuovo ci dimostra come al centro di tutto il tema della comunicazione, come della leadership, si ponga l’identità sociale condivisa del gruppo e conseguentemente, la perfetta conoscenza di questa da parte del futuro leader.



Testi di approfondimento sull’argomento:

Bonaiuto M, Maricchiolo F., “La comunicazione non verbale” (2003), Carocci editore.

M.Cozzolino, “La comunicazione invisibile. Gli aspetti non verbali della comunicazione”, 2003, Edizioni Carlo Amore.

I. Poggi, F. D’Errico, “Comunicazione multimodale e influenza sociale” (2020), Carocci;

R. Tassan, “Per una semantica del corpo” (2005), FrancoAngeli.

S. Alexander Haslam, Stephen D. Reicher, Micheal J. Platow esposto in maniera egregia nel loro libro “Psicologia del leader” (2013), Il Mulino.

C. Righi, “Non solo parole. Il non verbale nel corpo politico nel caso di Obama” (2005), Rivista EIC, articolo disponibile su http://www.ec-aiss.it/pdf_contributi/righi_29_3_10.pdf



Note al testo:

[1] I. Poggi, F. D’Errico, “Comunicazione multimodale e influenza sociale” (2020), Carocci;

[2] Ibidem;

[3] Per approfondire questo tema, consigliamo il libro di Libro di Carl Gustav Jung, “I tipi psicologici” (1921), ripubblicato dalla Bollati e Boringhieri nel 2021;

[4] Si veda il libro di Alexander S. Haslam, “Piscologia delle organizzazioni”, Maggioli Editore;

[5] Articolo disponibile su: https://www.palermomania.it/news/comunicati-eventi/la-russa-e-la-polemica-sulla-camicia-io-casual-non-si-va-a-kabul-in-giacca-e-cravatta-30853.html

[6] Queste considerazioni sono state approfondite nel nostro ultimo libro e trovano il loro quadro teorico nel lavoro di S. Alexander Haslam, Stephen D. Reicher, Micheal J. Platow esposto in maniera egregia nel loro libro “Psicologia del leader” (2013), Il Mulino.

[7] I. Poggi, F. D’Errico, “Comunicazione multimodale e influenza sociale” (2020), Carocci, pp. 117-118;

[8] Ibidem, pp. 118-119;

[9] Ibidem, pp. 121;

[10] Come approfondimento consigliamo la lettura del libro citato di Vincenzo Mastronardi, “Le strategie della comunicazione umana” (2002), (FrancoAngeli). In particolare tutta la “II Parte” dedicata alla Comunicazione non verbale e nello specifico, dalla pag.145 alla pagina 222;

[11] Cfr S. Alexander Haslam, Stephen D. Reicher, Micheal J. Platow esposto in maniera egregia nel loro libro “Psicologia del leader” (2013), Il Mulino, p. 228.

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